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SPOT IN MINIERA
I minatori del Cile tornano al sole. La meraviglia non sarà la luce, ma il deserto di sabbia e sale trasformato in luna park. Bancarelle, gitanti e tribune dove mille telecamere aspettano di raccontare la prima storia a lieto fine in un anno di tragedie dimenticate. Siamo sinceri: fino a tre mesi fa a chi veniva in mente di arrabbiarsi per 33 morti in un posto chiamato San José alla deriva nel tavoliere più arido del pianeta? Quanti scavatori di rame, carbone, oro muoiono in Cina, Russia, Africa e nelle altre Americhe nell’indifferenza della borghesia illuminata? In Italia cadono tre operai al giorno, numeri che affondano nella distrazione funzionale alle macchine dell’economia in affanno. Due parole in Tv e si tira avanti. Il rame è il pilastro del benessere cileno al quale le società benestanti non possono rinunciare. Va in scena la solidarietà hollywoodiana che esalta il buon cuore dei politici e riabilita le corporazioni succhiasangue, spiccioli a chi rischia la vita. La miniera dei sepolti vivi era un gruviera sfasciato. La compagnia che sfruttava padri di famiglia kamikaze per disperazione, è stata bacchettata – bacchette e basta – ma è mancato il coraggio di chiudere le gole traballanti. Perché il rame è l’oro del Cile. Esporta sei milioni di tonnellate, cinque miliardi e mezzo di dollari. Non è facile legare le mani ai manager superstar del continente latino. La brutta storia doveva finire come le altre volte: dolore rimpicciolito dai giornali locali quando, purtroppo, da sottoterra fanno sapere di non essere morti. Un fastidio per aziende e politici; imbarazzo per il nuovo governo sbocciato nella memoria di Pinochet.   Non è un buon momento per Piñera, presidente miliardario (giornali, squadre di calcio, televisioni, linea aerea nazionale: se ne è provvisoriamente liberato ma nel girotondo delle azioni non è chiaro finite nelle mani di chi). Piazze agitate, il terremoto inginocchia l’economia, ma il rame che la Cina divora è la speranza da non sfiorare. Invece crolla la miniera e i minatori mandano a dire che vogliono essere salvati e gli gnomi della tecnologia dell’altra America rispondono orgogliosi: la nostra tecnologia può riportarli a galla. Comincia lo spettacolo che Billy Wilder e Kirk Douglas avevano anticipato sessant’anni fa ne “L’Asso nella manica”. Follia attorno alla pena di un sepolto vivo e una striscia di terra diventa il cuore del mondo. Il miliardario Leonardo Farkas (miniere di ferro) arriva con i riccioli biondi del benefattore: ad ogni donna che aspetta regala 100 mila dollari. Promette un milione appena saranno fuori. Voleva candidarsi a presidente ma l’oligarchia dei capitali glielo impedisce scatenando i giornali delle banche dove hanno messo il naso. Allarmato dal successo dello spettacolo di Farkas, Piñera corre a consolare le famiglie accampate attorno al buco e i suoi ministri trasformano San José nel circo della speranza mentre nessun riflettore illumina 32 indigeni mapuche in galera per essersi ribellati all’ordine di sgomberare le foreste dove abitano da sempre. Chissà cosa nascondono nelle viscere; le holding le vogliono e il governo non dubita del loro diritto di scavare. Due mesi di sciopero della fame non commuove nessuno fino a quando arriva chi difende i diritti umani e Piñera finge distrattamente di trattare ma non molla preso com’è dallo show del salvataggio e dai “vi voglio bene” distribuiti in mondovisione. Accelera i tempi del riscatto perché deve visitare l’Europa ed è bello sbarcare con l’aureola dell’angelo salvatore. Non succede solo in America latina. Anche i nostri militari di ritorno dall’Afghanistan in una bara tricolore vengono usati per nascondere sotto la retorica degli addii lo sfascio morale e politico nel quale affondano le speranze delle generazioni dal futuro vuoto. Lacrime e parole e tutto continua come prima. (  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.  )  
di Maurizio Chierici
IL FATTO QUOTIDIAN 12 OTTOBRE 2010