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dineroiglesiaIL CAPITALISMO È INCOMPATIBILE CON IL CRISTIANESIMO
Fernando Sebastián Aguilar, arcivescovo di Pamplona e Tutela, disse trenta anni fa durante la presentazione di un ciclo di conferenze a León sul tema Chiesa-Società che il socialismo difficilmente era compatibile con una coscienza cristiana, con una coscienza cattolica. Un’affermazione non solo erronea e falsa, ma anche carente di rigore filosofico, scientifico e teologico. Ciò che è incompatibile con la coscienza, ma soprattutto con la pratica cristiana e cattolica è il capitalismo.
La coscienza e la pratica cattolica è incompatibile con politiche e procedimenti che permettono che un gruppo esiguo di grandi compagnie multinazionali controlli l’economia globale ai soli fini di favorire i propri interessi privati e massimizzare i propri benefici. Il cristianesimo è incompatibile con il “saccheggio planetario” che i grandi gruppi attuano depredando l’ambiente; traendo profitto dalle ricchezze della natura che sono il bene comune dell’umanità. Tale azione comporta, come stanno vivendo nella propria carne i settori più coinvolti, distruzioni impressionanti: disoccupazione massiva, sottoimpiego, precariato, sovrasfruttamento di uomini, donne, bambini e bambine. Inevitabile l’accentuazione dello squilibrio già esistente.
Di fatto, il divario si è acuito al punto da risultare scandaloso persino agli occhi di coloro che difendono a spada tratta il capitalismo e che cercano di argomentare sostenendo che si tratta di qualcosa di temporaneo e che nel futuro la situazione cambierà. Si pensava che la marea ascendente del libero commercio e della globalizzazione “avrebbe sollevato tutte le imbarcazioni” e avrebbe eliminato la povertà. Era la teoria del “goccia a goccia”: benessere e autentiche possibilità ai settori più impoveriti.
Ma nel mezzo secolo trascorso dall’inizio di questo assalto del capitalismo globale la povertà è aumentata più che mai nel mondo e la situazione economica continua a peggiorare, come possiamo constatare attorno a noi. Gli immensi guadagni che sono andati ad incrementare le grandi fortune in epoca di abbondanza non vengono adesso distribuiti. Viene chiesto ancora una volta alla classe operaia di pagare la crisi generata dalle banche e dai capitali finanziari speculativi. Il capitalismo genera ricchezza, ma solo per l’élite che trae beneficio dall’ondata di consolidazioni, fusioni, tecnologie a grande scala e attività finanziarie. La globalizzazione inasprisce questa tendenza, mettendo uno contro l’altro i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo al fine di ottenere le molliche che cadono dalle tovaglie ben servite delle persone arricchite: basti pensare alla Grecia.
Poco rimane di quella alta marea che avrebbe dovuto sollevare le imbarcazioni; le uniche che hanno innalzato il proprio livello sono gli yatch di “prima classe”.
Il problema è che tutto questo non è un effetto periferico né collaterale al capitalismo, è qualcosa di inerente al capitalismo stesso, è la sua propria essenza. Il capitalismo si basa sullo sfruttamento di alcune persone da parte di altre. Il suo obiettivo principale è ottenere un beneficio sempre maggiore per assorbire i capitali minori. Per sussistere non può smettere di crescere. Quindi non può smettere di sfruttare. Ecco quindi la ragione per cui il capitalismo non ha risolto nemmeno una delle grandi questioni sociali sollevate dalla situazione mondiale prima della sua egemonia;   ancora di più, la maggior parte delle questioni di base sono peggiorate in modo allarmante e drammatico.
La “classe politica”, formata dai rappresentanti scelti dal popolo, dice che la sua priorità sono i posti di lavoro; ma la Borsa risponde con un “evviva!” e rialzi spettacolari ogni qualvolta si annunciano licenziamenti in massa e affonda quando sembra che si prospettino degli aumenti salariali. Le quotazioni in borsa e i benefici dei consorzi ascendono in percentuali di due punti, mentre i salari e le retribuzioni a giornata vanno al ribasso. Contemporaneamente cresce la disoccupazione, i contratti “spazzatura”, il precariato lavorativo, i salari miserabili, gli incidenti lavorativi e l’insicurezza sociale. Vediamo come si cancellano, mediante patti o “decretacci”, diritti sociali conquistati con grande sacrificio e ascoltiamo con indignazione le informazioni spudorate delle banche e delle grandi compagnie sull’incremento “record” dei propri benefici quando, invece, oltre la metà delle persone disoccupate non ha sussidi economici o le pensioni minime continuano ad essere ridicole. Questi benefici imprenditoriali record vanno a finire in quei Paesi in cui le tasse sono veramente basse o nei paradisi fiscali. In tutto il mondo diminuisce la percentuale con cui i detentori di capitali contribuiscono al finanziamento delle spese dello Stato, mentre le grandi Corporation minacciano fughe di capitali e strappano in questo modo drastiche riduzioni di tasse e sovvenzioni multimilionarie o infrastrutture gratuite.
In definitiva, sembra che la globalizzazione neoliberale abbia lo scopo di organizzare l’economia mondiale al servizio del beneficio delle grandi corporazioni multinazionali e non della giustizia sociale.
Nel rispetto di questo modello neoliberale il capitale si è appropriato di tutti i benefici che derivano dalla produzione mondiale, impedendo la partecipazione dei lavoratori o della società in generale. Come se se questo modo di agire fosse qualcosa di normale e non un attentato contro la giustizia distributiva applicata ai beni del mondo o un atto di cinico e assoluto disprezzo della vita e dei diritti di migliaia di milioni di persone che soffrono carenze di base.  A rendere questa appropriazione indebita ancora più vergognosa è l’ostentazione da parte delle grandi Corporation dei loro “risultati” (benefici) imprenditoriali annuali sempre più cospicui e della “generosa carità” (interessata, poiché le somme destinate in beneficenza possono essere detratte dalle tasse e creano “una buona immagine”) delle loro “Fondazioni”.
Ecco quindi che qualunque riferimento all’utopia neoliberale sembra un po’ ironica, per non dire tragica, in un mondo dove, su un totale di sei miliardi di esseri umani che abitano il pianeta, il numero di persone che sopravvive sotto il livello di povertà internazionale era pari a 1.200 milioni nel 1987, a 1500 milioni oggi e, se le recenti tendenze persistono, raggiungerà i 1.900 milioni nel 2015.
È chiaro che il socialismo o il comunismo sono andati incontro a molti fallimenti, commettendo anche delle atrocità. Lo stesso vale per il cristianesimo e non solo ad opera dell’Inquisizione di nefasta memoria. Ma entrambi, cristianesimo e comunismo, hanno un fine essenzialmente comune: costruire una società più giusta ed equa per tutta l’umanità, non per pochi a spese degli altri. Per questo motivo, come dice Frey Betto, “Non c’è futuro per l’umanità al di fuori del socialismo”. E ne sono convinto. Vale a dire: condividere i beni della terra e i frutti del lavoro umano. Il socialismo è l’unico modo di creare una cornice di civiltà veramente umana, degna e felice.

Redes Cristianas de León – 8 giugno 2010