Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Italiano Español English Português Dutch Српски
testa sito 2024
planetatierra2I BUCHI NERI DEL PIANETA

Oltre un miliardo di persone nel mondo vive con meno di un dollaro al giorno e oltre due miliardi  con meno di due. Metà di loro sono bambini. 1,1 miliardi non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi sconoscono le minime condizioni sanitarie. La globalizzazione ha aumentato gli squilibri, dando origine a numerosi focolai di povertà.

Il quotidiano “EL PAIS” si è recato in alcuni dei centinaia di buchi neri nel pianeta, in diversi punti cardinali: Bangladesh, Gaza, Haiti e nella Repubblica Centrafricana. Quattro storie di miseria umana che saranno pubblicate nel mese di agosto.

GAZA: UN BLOCCO TOTALE E DISUMANO
Javier Ayuso – El País – Agosto 2010


Vivono imprigionati in un territorio di 365 chilometri quadrati (un quinto della provincia di Guipuzcoa, la più piccola della Spagna), circondato da enormi mura alte otto metri e da un blocco navale a sole tre miglia dalla costa. Gli assedianti israeliani li hanno sottoposti ad un blocco totale e disumano che impedisce l’ingresso o l’uscita di persone e merci, in risposta agli oltre 8000 razzi lanciati da Gaza contro i coloni ebrei negli ultimi otto anni. Gli 1,6 milioni di abitanti, di cui un milione sono profughi, vivono imprigionati da parte del governo di Israele e dall'autorità di Hamas (che l’Occidente considera un'organizzazione terroristica), scelta da loro nel 2006.
Raggiungere Gaza è come passare dal primo al terzo mondo in pochi chilometri. Bisogna arrivare in aereo a Tel Aviv, capitale dello Stato di Israele, spostarsi in macchina a Gerusalemme e  procurarsi un visto per recarsi nella Striscia di Gaza. Successivamente un taxi Mercedes ti porta al paso di Ben Hanun, un viaggio che ti fa sentire come in qualunque paese del Mediterraneo europeo. Buone autostrade, transitate da auto occidentali, lungo estesissimi campi agricoli. Un caffè bar moderno con wifi è l'ultimo contatto con il benessere ad appena un chilometro dal confine.
L'arrivo al paso di Ben Hanun costituisce un vero shock per il visitatore. La strada è chiusa da un enorme muro di cemento alto otto metri, circondato da recinzioni metalliche, torrette di sorveglianza e telecamere di sicurezza. Assomiglia all'ingresso di un campo di concentramento, dove decine di soldati pesantemente armati fanno la guardia.
Dobbiamo entrare in un hangar enorme, a piedi, e iniziano gli interrogatori. Un soldato molto gentile e con molto poco lavoro chiede con curiosità: "Cosa venite a fare a Gaza?" e spiega poi che il confine può essere chiuso in qualsiasi momento, a seconda degli eventi. Con il visto entrare è facile, uscire si vedrà.
Dopo aver attraversato due o tre porte metalliche, che si aprono e chiudono rumorosamente, si entra in territorio palestinese. Bisogna camminare per 1 km sotto il tetto metallico, lasciandosi dietro il muro e il filo spinato, fino a un luogo fatiscente dove alcuni soldati palestinesi, vestiti di nero e con un’espressione poco amichevole, iniziano un nuovo interrogatorio.
Lì ci aspetta una macchina con il nostro fixer, Amjad, un palestinese che ha vissuto in Spagna e Tunisia, e si dichiara ammiratore di Arafat, di cui ha la foto sullo schermo del cellullare. Oltrepassata la zona di sicurezza, si raggiunge subito il paese di Abd Rabo Ezbeit completamente distrutto dai bombardamenti del dicembre 2008, dove centinaia di persone vivono di stenti in edifici crollati di cui sono ben visibili il cemento e i ferri. In lontananza si vede la centrale elettrica a carburante, l'unica di Gaza, che funziona solo 12 ore al giorno, per mancanza di carburante.
Il paso di Ben Hanun è circondato da un muro di cemento e da recinzioni elettriche. Sembra un campo di concentramento.
La Striscia di Gaza ha una superficie di 365 chilometri quadrati: 13 km di confine con l'Egitto, a sud, otto chilometri con Israele al nord e altri 47 a est, mentre la costa si estende per 45 chilometri. Da una popolazione di 1,6 milioni di abitanti, quasi un milione sono rifugiati arrivati in questa zona dal 1948 al 2006, quando il muro venne chiuso. Vivono in otto campi, distribuiti nelle cinque province della Striscia: Nord, Gaza, Dar el Balat, Khan Younis (dove si trova il più grande campo profughi) e Rafah.
Dal rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, il 25 giugno 2006, da parte dell'esercito di Hamas, Israele ha intensificato il blocco a un livello disumano, impedendo l'ingresso di carburante, cibo e materiali da costruzione. Da allora ci sono stati oltre 2.000 morti, la maggior parte palestinesi, a causa degli scontri continui tra le due parti. Nessuno sa dove sia tenuto prigioniero questo giovane che adesso avrebbe 25 anni.
In questi quattro anni l'esercito israeliano ha compiuto due operazioni militari di rappresaglia in cerca del soldato rapito. La prima, denominata Summer Rains nel giugno 2006, che è durata cinque mesi e ha causato la morte di 243 civili palestinesi e la seconda, tra dicembre 2008 e gennaio 2009, chiamata Operazione Piombo Fuso, che ha seminato il terrore lungo l’intera Striscia di Gaza con oltre 1.500 palestinesi morti. Poi c’è stato l'incidente della flottiglia della pace, lo scorso giugno, a mettere in evidenza ancora una volta la politica di Israele.
Oltre al conflitto esterno, Gaza sta vivendo una guerra civile tra le due organizzazioni palestinesi: Fatah e Hamas. La prima, molto più moderata, ha vinto le elezioni in tutti i territori palestinesi e controlla l'Autorità Palestinese, tranne nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha vinto nel 2006. Da allora Hamas ha istituito un regime radicale islamico, portando avanti la sua guerra contro i coloni ebrei e gli scontri contro i militanti di Fatah. Nel giugno 2007 è scoppiata una guerra tra le due organizzazioni nella Striscia di Gaza, causando 700 morti e la destituzione dei rappresentanti dell'Autorità palestinese.

UNA FAMIGLIA DISTRUTTA
Ghalia Al Sammouny ha 60 anni, è vedova e ha perso 29 membri della sua famiglia nell’Operazione Piombo Fuso. Seduta per terra in una capanna vicino alle rovine di quella che fu la sua casa, ricorda quel 5 Gennaio 2009 con terrore. "Quando sono arrivati i carri armati israeliani, mia figlia stava per partorire”, dice tra le lacrime. "Ha avuto una bambina che è sopravvissuta ai bombardamenti. Ma mio figlio è stato colpito da un proiettile ed è morto in mezzo alla strada. Hanno distrutto un'intera famiglia. Non abbiamo più niente."
Accanto a lei tre donne più giovani fanno coro. Tutti appartengono al clan e tutte hanno perso qualche membro della famiglia. "Siamo tutte vedove o orfane di guerra", dice Fathia, che ha perso suo marito e due figli. "Non abbiamo più una famiglia, né soldi, né terra, né speranza ... aspettiamo la morte."
I membri della famiglia Al Sammouny erano agricoltori nella periferia di Gaza, nel quartiere di Al Zatun, a sud della capitale. Una zona di piccole aziende agricole di ortaggi e frutta. Il 5 gennaio 2009, dopo molti giorni di bombardamenti, aerei militari israeliani hanno sorvolato di nuovo a bassa quota la Striscia di Gaza. La gente è uscita dalla propria casa per paura delle bombe che iniziavano a cadere e si è trovata in strada con i carri armati dell'esercito israeliano, che provenienti da ovest hanno iniziato a sparare i loro proiettili. "È stato terribile vedere cadere mio figlio di 21 anni che si dissanguava a terra", grida Ghalia con le mani a croce, come per chiedere giustizia.
Gli attacchi, oltre a uccidere 29 membri del clan, hanno distrutto le loro quattro abitazioni e i campi. Da allora i superstiti vivono in una baracca che si sono costruiti con materiale di demolizione, in mezzo ad alcuni alberi di fico mezzo secchi. È l'immagine della fatalità. La capanna è costruita con fango, con un tetto di lamiera ondulata mezzo rotta, circa 15 metri quadrati. Sul retro, accatastati, alcuni materassi vecchi e sporchi, coperte, tappeti e qualche indumento. Una lampadina pende dal soffitto. Qui abitano sei persone. Dall’altra parte un'altra capanna di due metri per due, senza soffitto, funge da cucina, con un fornellino dove bolle l'acqua per il tè.
Cinque o sei bambini sotto i sette anni giocano accanto a un filo di ferro arrugginito per stendere la biancheria, ferri contorti di quella che un tempo era una casa, plastiche appese mosse dal vento, un
orto con tre o quattro file di cavoli e cumuli di immondizia dove mangiano capre e galline.
"Quando i bombardamenti sono finiti, siamo riusciti a seppellire i nostri morti", dice Ghalia. "Tutti tranne uno, che gli israeliani si sono portati via e che è morto, ci hanno detto. Da allora siamo morti, viviamo nella miseria con quello che raccogliamo dalla terra e con piccoli lavori saltuari. Abbiamo ricevuto qualche aiuto dalle Nazioni Unite, ma è finito".
Erano 30 anni che i Sammouny Al vivevano in questa zona, coltivando la terra, ma dopo l’embargo tutto è iniziato ad andare di male in peggio. "Ora siamo finiti", dice Fathi. "Che cosa dobbiamo fare? Cresciamo i nostri figli come possiamo, ma abbiamo paura che tornino gli aerei. Non sappiamo cosa sarà di noi e dei nostri figli domani o la prossima settimana".
Ghalia chiede aiuto. In ginocchio, con le braccia aperte e le lacrime che rigano il suo viso, chiede protezione, cibo, riparo... "Non abbiamo più nulla, ma non possiamo arrenderci. Abbiamo fiducia in Dio e dobbiamo portare i nostri figli avanti".

UN PESCATORE DEL CAMPO PROFUGHI DI AL SHATI
Hamada Abu Jamal ha 49 anni e uno sguardo triste, quasi morto. È un pescatore e vive nel campo profughi di Al Shati, nel centro della capitale, istituito nel 1948. Allora c’erano tende di accampamento, ma oggi sono  case in costruzione, fatiscenti e piene di detriti, senza finestre né mobili. Nella Striscia di Gaza vi sono otto campi profughi abitati da un milione di persone che vivono con gli aiuti delle Nazioni Unite.
Vive in una casa a tre piani in rovina, semicostruita cinque anni fa con la moglie, cinque figlie, quattro figli, due nuore e tre nipoti. Sono in 16 a mangiare ogni giorno. Ha iniziato a lavorare come pescatore a 10 anni e ora ha tre imbarcazioni di otto metri, due a Gaza e una a Rafah, vicino al confine con l'Egitto. Prima si guadagnava da vivere in maniera dignitosa, pescando, quando le acque giurisdizionali erano di 12 miglia. Ma nel 2006 gli israeliani hanno ridotto la zona a tre miglia e lì non c’è quasi pesca. "Chi supera le tre miglia," spiega, "viene arrestato dalla pattuglia israeliana, che affonda le imbarcazioni".
"Viviamo grazie agli aiuti dell'UNRWA", ha detto Jamal. "Ogni tre mesi ci danno tre sacchi di farina di 150 chili, 15 chili di zucchero, 15 chili di riso e sette litri di olio vegetale. Sono ancora vivo perché non ci sono abbastanza modi per morire, ma ogni giorno che passa muoio un po’ di più. Il futuro non esiste per noi."
I bombardamenti del 2008 gli hanno distrutto parte della casa, che è ancora piena di detriti. "Non abbiamo soldi né materiali per ricostruirla", dice. "La luce funziona solo 12 ore al giorno e quando abbiamo un po’ di soldi per il carburante possiamo accendere il generatore per avere la luce. I miei figli lavorano tre mesi all’anno e quindi non possiamo sostenere la famiglia. Abbiamo solo Dio che ci aiuta. Preghiamo cinque volte al giorno, come dice il Corano, ma abbiamo sempre meno speranza. Abbiamo vissuto molte guerre: quella del 1967, 1986, le conseguenze della guerra del Golfo, le due Intifada... ma il peggio è arrivato con il governo di Hamas e il blocco di Israele".
I bambini ascoltano ciò che dice, mentre districano delle reti da pesca piene di ami, che passano da un contenitore di legno ad un altro, un lavoro inutile, perché sanno che non le possono utilizzare. Eppure, le mantengono efficienti, qualunque cosa possa accadere.
Camminando verso il porto, Jamal è silenzioso, come smarrito. Parlano solo i suoi occhi, pieni di disperazione. Ci sono decine di barche incagliate in un porto in rovina dai bombardamenti. Quattro pescatori prendono il tè su un tappeto logoro, mentre alcune barche entrano o escono dal porto per cercare di pescare alcune sardine a meno di tre miglia dalla costa.

MALATI DI DISPERAZIONE
Jamal è uno delle centinaia di migliaia di palestinesi che soffrono di disperazione. E’ il principale problema di salute nella Striscia, ha dichiarato il Dr. Moeen, direttore del Centro di Salute Mentale di Jabalia, il più grande a Gaza. Ha 56 anni, un dottorato in Psichiatria presso l'Università di Parigi e ha lavorato in Arabia Saudita, Libia e Iran. Ora cercherà di tirare fuori dal pozzo in cui si trovano i suoi 5.000 malati di mente del quartiere di Jabalia.
“Gli abitanti di Gaza hanno gravi problemi di salute mentale", spiega il dottor Moeen, "a causa del vivere chiusi dentro un muro enorme, a scapito di attacchi regolari e di una situazione di povertà e sovrappopolazione molto elevata". Nel quartiere di Jabalia vivono circa 300.000 persone ed è uno dei più colpiti dagli attacchi israeliani. In realtà, il centro medico è circondato da case distrutte dalle bombe che non potranno essere ricostruite finché vigerà il blocco.
"Visitiamo diverse centinaia di pazienti al mese in questo centro di salute pubblica", aggiunge lo psichiatra. "La maggior parte sono poveri o molto poveri e soffrono di depressione, ansia, shock post-traumatico o di tossicodipendenza. Dei 5.000 pazienti, il 70% per cento sono maschi. Sono dodici anni che lavoro qui e la situazione sta peggiorando. Non riusciamo a far fronte a tutte le richieste di assistenza, né abbiamo sufficienti farmaci antidepressivi. Gli antidepressivi finiscono subito e non ci sono centri di riabilitazione per dipendenza da cannabis e pasticche, che sono sempre più comuni. La maggior parte dei tossicodipendenti assume il “tramadol”, un derivato della morfina che riesce ad entrare attraverso i tunnel e viene venduto ovunque”.
Questo centro ha il sostegno e riceve finanziamenti dalla Ong spagnola Medicos del Mundo (MDM). Qui si trova Susanna, una psicologa di 37 anni, il cui compito è quello di migliorare il sistema di organizzazione del Centro di Salute. Susanna conferma il deterioramento delle condizioni mentali degli abitanti della Striscia di Gaza dal 2006. "I più vulnerabili sono i bambini e i giovani", spiega. "Qui vivono come prigionieri in condizioni estreme, circondati dalla violenza tanto esterna come interna. Religione e famiglia servono da contenitori per sopravvivere ad una situazione estrema."
Il Dr. Moeen aggiunge che ogni giorno deve "visitare molti bambini, sempre più piccoli che hanno sofferto ogni sorta di trauma da guerra, povertà, stress, mancanza di affetto o semplicemente trauma dovuto al sovraffollamento. La situazione è drammatica e continua a peggiorare".

VITE SENZA SENSO
Ogni due o tre mesi il medico spagnolo Ricardo Angora, uno dei responsabili del progetto MDM e un esperto della situazione della zona, viaggia a Gaza. È stato testimone del peggioramento della situazione dal 2006. "I palestinesi ormai non danno più senso alla loro vita", egli spiega. "Prevale una sensazione di incertezza su ciò che accadrà il giorno dopo e questo rende le persone insicure sul loro domani. Ci sono già diverse generazioni perdute, ma i più colpiti sono i bambini, che influenzano pesantemente il morale della popolazione".
Angora aggiunge che "anche se ora non c'è una situazione di guerra aperta, gli attacchi mirati effettuati da aerei israeliani hanno pesantemente intaccato il morale della popolazione, che vive anche in condizioni di povertà assoluta (80% vive al di sotto della soglia di povertà ); la stragrande maggioranza dipende dall’aiuto delle Nazioni Unite per sopravvivere. I principali problemi sono la mancanza di posti di lavoro, di alloggi, la violenza interna ed esterna e, soprattutto, la sensazione di vivere in prigionia. E’ terribile sapere che non puoi andare via da un luogo dove vivi male".
I bambini sono ancora una volta dei capri espiatori del conflitto. Tutti i bambini di età inferiore a 10 anni hanno conosciuto solo il blocco, iniziato nel 2000 con la seconda Intifada e rafforzato nel 2006.
Hanna el Gafarani, 38 anni, è proprietaria di una scuola privata materna a Gaza, frequentata da un centinaio di bambini tra i 4 e 5 anni, e conferma il parere dei rappresentanti di Médicos del Mundo. "I bambini non hanno infanzia a Gaza", spiega Hanna. "Vivono in mezzo alla violenza che a loro volta li rende violenti e cercano lo scontro. Anche se si sono abituati al rumore degli aerei pronti a bombardare, ne soffrono. Il nostro obiettivo è di lavorare con loro e dare un messaggio di speranza e di felicità. Ma la verità è che è molto difficile".
E’ anche difficile il lavoro di Right to Live, una ONG palestinese che si prende cura di bambini con sindrome di Down, ed è finanziata da diversi Paesi, compresa la Spagna, attraverso l'Agenzia spagnola di Cooperazione Internazionale (AECI). Il centro è situato nel quartiere di Al Shejia, una ex area industriale alla periferia di Gaza, ora popolata da ruderi di edifici industriali distrutti dai bombardamenti di un anno fa.
Mohammed Areer, 37 anni, uno psicologo che lavora nel centro da 12 anni, è vice direttore dell'istituzione nata nel 1992 come piccolo rifugio per i bimbi affetti dalla sindrome di Down. Si tratta dell’unica organizzazione che offre assistenza a questi bambini ed ha una lunga lista di attesa.
"Nel 1996 il governo palestinese ci ha dato 10.000 metri quadrati di terreno e abbiamo incrementato le nostre strutture", dice Mohammed. "Abbiamo avuto un sostegno significativo da molti Paesi dell'Unione Europea, come la Spagna. Ma da quando Hamas è salito al potere nel 2006 e il blocco è stato rafforzato, gli aiuti arrivano con il contagocce. Con i fondi ricevuti dall’estero possiamo andare avanti sicuramente per i prossimi tre anni, ma adesso non abbiamo altre entrate, pertanto non possiamo fare progetti per il futuro”.
Right to Live offre assistenza a 850 bambini, 650 dei quali hanno la sindrome di Down, 50 soffrono di autismo e i 150 rimanenti non soffrono di alcuna malattia ma collaborano nell’educazione degli altri. I giardini del centro sono come un'oasi di pace in una società stressata e disperata, che vive di aiuti esteri.

UN AIUTO INDISPENSABILE
"Senza l'aiuto delle Nazioni Unite la popolazione di Gaza non riuscirebbe a sopravvivere nemmeno un mese". Queste le parole pronunciate da Sebastien Trives, 39 anni, massimo responsabile dei piani di emergenza dell'UNRWA. Un francese di Montpellier giunto a Gaza tre anni fa dopo aver trascorso altri tre giorni in Afghanistan. Ha uno sguardo pulito e una voce soave, ma le sue parole rivelano una certa frustrazione. "Tutto sta andando nella direzione sbagliata, la situazione sta peggiorando e non dà segni di migliorare", spiega. “Per questo motivo il nostro lavoro qui è sempre più importante, quasi indispensabile."
L'UNRWA svolge due tipi di attività a Gaza: educazione e emergenza. "In materia di istruzione", dice Sebastien "ci stiamo impegnando per trovare soluzioni per il futuro. Abbiamo 228 scuole nella Striscia di Gaza, frequentate da 200.000 studenti tra i 6 ei 15 anni. Insegniamo loro l'arabo, inglese, matematica e diritti umani. Tutti gli insegnanti sono del posto."
"Ci piacerebbe aiutare e mettere fine all’occupazione e al blocco di Israele", dice con un tono un po’ più aggressivo, "ma non dipende da noi, per questo motivo cerchiamo di formare i bambini nei valori universali della non violenza e del rispetto. Non dipendiamo dal governo di Hamas e agiamo liberamente. Di fatto, tutte le nostre scuole sono miste. L'unica cosa che possiamo fare é impegnarci affinché la prossima generazione possa vivere meglio e non sopravvivere, come succede adesso".
I bambini che usufruiscono della "borsa di studio" delle Nazioni Unite riescono a dimenticare i loro disagi durante la mezza giornata che si trovano a scuola. Nella scuola del quartiere di REMAL, in pieno centro di Gaza, vi sono 1.200 studenti che frequentano ogni giorno in due turni (ore 7-12 e 12-17) assistiti da maestri e professori. Ci sono 38 aule. Gli studenti si mettono in posa per i visitatori e sorridono apertamente al fotografo. Sembrano felici, nonostante tutto. Senza l'aiuto delle Nazioni Unite sarebbero in strada.
La responsabilità principale di Sebastien sono i piani di emergenza delle Nazioni Unite a Gaza. Da lui dipendono direttamente le attività di assistenza sanitaria di base, le infrastrutture e gli aiuti ai rifugiati, con un budget annuale di 250 milioni di dollari. "Da noi dipendono circa un milione di profughi che aiutiamo a sopravvivere", egli spiega. "Gaza è un super carcere dove vivono i palestinesi senza lavoro né speranza. Il 60% dei giovani sono disoccupati e vivono in un contesto di estrema violenza. Inoltre, si stima che 300.000 persone vivano qui in una situazione di estrema povertà".
Ogni tre mesi l'UNRWA distribuisce i propri alimenti in undici centri distribuiti in tutta la Striscia di Gaza: farina, riso, zucchero, olio e, quando c’è, un po’ di carne.
"Nelle infrastrutture non possiamo lavorare bene", si lamenta Sebastien Trives. "Dopo i bombardamenti di gennaio 2009 non siamo riusciti a ricostruire nemmeno una casa, perché non abbiamo materiale da costruzione. Ora stiamo costruendo case di fango come soluzione temporanea. Il blocco impedisce di introdurre qualunque cosa a Gaza. L’unica via di ingresso sono i tunnel del Sud ".
EL PAIS


I BUCHI NERI DEL PIANETA

RCA: LA MALARIA

Di  Javier Ayuso – El País –Settembre 2010


Nel capannone di pediatria dell’ospedale di Batangafo, nella Repubblica Centroafricana (RCA), si respira l’orrore. Qussi, 29 anni, vive con la speranza che le sue due gemelle di un anno, Pamila e Nguera, ricoverate in ospedale da quattro giorni, sopravvivano alla febbre alta e alle diarree provocate dalla malaria. Ricorda ancora come due anni fa morirono nello stesso ospedale e a causa della stessa malattia altri due suoi figli, anche loro gemelli di cinque mesi, arrivati in ospedale troppo tardi. Prima si era rivolta ad un guaritore che cura i suoi pazienti con la cosiddetta “medicina tradizionale”, ritardando di diversi giorni il loro ricovero in un centro medico. A 600 km a sud, nella città di Boda, mezzo centinaio di bambini cercano di sopravvivere alla denutrizione in un altro ospedale che, come quello precedente, è gestito da Medici Senza Frontiere (MSF). La crisi dei paesi ricchi ha ridotto al minimo l’attività nelle miniere d’oro e di diamanti e gli abitanti della zona non hanno da mangiare. Le vittime sono sempre i bambini. Al nord del paese, vicino alla frontiera con il Ciad, centinaia di famiglie costruiscono le loro baracche in un improvvisato campo profughi, pronti per affrontare la stagione delle piogge. Hanno dovuto abbandonare i loro villaggi di fronte alla minaccia dell’Esercito regolare di “spazzare” la zona in cerca di ribelli che da anni esercitano la loro legge.
Queste sono immagini abituali nella Repubblica Centrafricana. Un paese dimenticato nella profonda Africa, circondato da altri Stati tristemente noti  per i continui conflitti: Ciad al nord; Sudan a est; Camerun a ovest e Congo e la Repubblica del Congo, a sud. Con 4,3 milioni di abitanti, la metà di loro minori di 18 anni, la RCA è segnata dalla violenza contro le persone, dai continui spostamenti di intere popolazioni che fuggono dalle fazioni ribelli che imperversano nel paese, dall’assenza di un sistema sanitario ed educativo decente, dalla corruzione che caratterizza tutte le classi sociali della società, dalle epidemie di malaria e tripanosmiasi, dalla denutrizione… Un autentico buco nero che non appare nei giornali e il cui personaggio più noto fu il tristemente famoso imperatore Bokassa, che governò il paese tra il 1966 e il 1979 e che ha lasciato un legato di corruzione e di violenza che si è consolidato nelle decadi successive grazie ai continui colpi di Stato volti a innalzare i militari in cerca di fortuna. Dell’epoca della colonizzazione francese rimane solo la lingua, alcuni edifici che cadono a pezzi e gli interessi di ditte francesi che esportano legno, uranio e metalli preziosi.
L’arrivo a Bangui, capitale della RCA, è un augurio di quanto ti riserva il paese. Alle due del mattino, il piccolissimo aeroporto sembra un terminal di autobus abbandonato. È inutile cercare di fare la coda di fronte al funzionario in uniforme militare mimetico che raccoglie i passaporti, perché le centinaia di viaggiatori si avventano per consegnare il documento per primi. Nel frattempo le valigie si accumulano alla fine del nastro che avanza a ritmo africano e che cadono sul pavimento di cemento.
Bangui “la Coquette”, si legge in un cartello all’ingresso della città. Così l’hanno battezzata i francesi. È appena leggibile, perché i pochi fari che funzionano hanno lampadine a bassissima potenza. I 400.000 abitanti della città dormono a quest’ora e lungo le strade si sente solo il rumore dei generatori di gasolio che forniscono energia alle abitazioni, perché l’unica centrale elettrica non è in servizio tutta la giornata. Uno dei nuovi rumori delle capitali dei paesi poveri.
A mezzogiorno, l’aeroporto è completamente vuoto. Un paio di soldati da assistenza a un gruppo che desidera viaggiare al nord. Ripresi i passaporti, bisogna avanzare lungo la pista per raggiungere un bimotore condiviso da Medici Senza Frontiere e Croce Rossa Internazionale. I lunedì e i giovedì fanno viaggi di andata e ritorno al nord del paese, dove diverse organizzazioni internazionali cercano di aiutare a contrastare le malattie tropicali e i danni che causano gli uomini con le loro armi.

LOTTA CONTRO LA MALARIA
Dicono che Batangafo è una città e, di fatto, lì vivono circa 28.000 persone, oltre la metà sono minori di 18 anni. Ma più che una città sembra un’enorme spianata, senza elettricità, senza acqua potabile né niente che possa assomigliarsi a delle strade, lungo le quali si susseguono un’infinità di capanne di mattoni crudi con tetto di paglia e centinaia di bambini semi nudi che salutano con quell’ enorme sorriso bianco.Il cosìddetto aeroporto sembrerebbe una strada di paese spagnola di poche centinaia di metri; spazio sufficiente per l’atterraggio di un aereo da turismo.
Le uniche costruzioni che non sono di mattone crudo sono il municipio, la prefettura, le sedi di alcune ONG e l’ospedale. Un insieme di baraconi costruiti negli anni trenta deteriorati nel tempo per mancanza di risorse della sanità della RPC, la cui gestione è passata nel 2006 nelle mani di Medici Senza Frontiere.
La baracca adibita a pediatria è piena ben oltre la sua capacità. Eppure siamo ancora alla fine di aprile e non è arrivata la stagione delle piogge che porta centinaia di casi di malaria. Oggi ci sono 61 bambini ricoverati, di età compresa tra i pochi mesi a 3-4 anni. Sembrano svenuti nelle braccia delle loro madri, con gli occhi cerchiati e un lieve lamento che riesce ad uscire a malapena dalla loro bocca. I pianti suonano alla sordina, come se nessuno stesse ad ascoltarli.
Qussi Dorkas ha 29 anni. È seduta su uno dei letti assiepati e protetti da zanzariere, con il suo piccolo bebè in braccio. Accanto a lei c’è Justine, sua figlia di quattro anni, che ha un altro bebè in braccio. Sono Pamila e Nguera, due gemelle di quasi un anno che sono state attaccate da zanzare anofele, probabilmente la stessa notte. Hanno la malaria e sono ricoverate da quattro giorni con diarrea e febbre molto alta. Non riescono neppure a piangere, sono troppo deboli. La flebo è attaccata alle loro braccia scheletriche.
“Sono di Batangafo e mio marito mi ha abbandonato alcuni mesi fa”, spiega Qussi. “Le mie bambine si sono ammalate qualche giorno fa e questa volta sono venuta direttamente in ospedale. Non voglio che mi succeda lo stesso di qualche anno fa, quando ho perso altri due gemelli di cinque mesi perché sono arrivata tardi. Ho altri figli di 11, 6, 4 e 3 anni, oltre alle mie gemelle malate. Justine è venuta con me perchè io non posso occuparmi di tutti e due”.
La sorella è diventata grande di colpo. Assiste la sua sorellina come se fosse una bambola, anche se sembra terrorizzata di cosa potrebbe accadere. Quando si lamenta, la dà a sua madre per farla allattare e calmi i suoi lamenti. “Viviamo alla giornata”, spiega Qussi “i miei altri figli sono rimasti a lavorare nel campo per sopravvivere. Non so cosa succederà domani. L’unica cosa che desidero è che le mie figlie non muoiano”.
Altre 60 madri sono sui letti o passeggiano tra loro con i loro bebè in braccio, alcuni attaccati al seno e con lo sguardo perso, aspettando che passino le ore. Etiene Lengue, infermiere di 32 anni, naturale della R.C.A, è il responsabile di pediatria da due anni. È tutto il giorno che visita bambini malati da malaria ed è stanco. Sa che in poche settimane arriveranno le piogge e con esse centinaia di bambini con malaria ogni giorno. Spiega: “L’anno scorso siamo arrivati a 600 bambini ricoverati allo stesso tempo. Abbiamo dovuto montare delle tende per assisterli. Maggio, Giugno e luglio sono i mesi peggiori, anche se siamo riusciti a ridurre il tasso di mortalità al di sotto del 5%. All’inizio morivano tanti bambini, perché prima li portavano dai guaritori. Perdevano tempo importantissimo, arrivavano quasi morti e non duravano cinque ore. Le madri hanno imparato che i loro bebè si curano qui con le medicine”.
Per questo motivo, i paramedici di Medici Senza Frontiere devono percorrere Batangafo e i villaggi vicini ricordando che l’ospedale è gratuito e che assistono tutti indistintamente.
L’ospedale è come un villaggio, ma sorge su strutture di miglior qualità. Le famiglie aspettano accampate nei giardini, seduti su stuoie. La sala di consulto di pediatria è la più frequentata. Decine di madri con i loro bambini in braccio aspettano che gli infermieri eseguano il “paracheck”, una lieve puntura nel dito per analizzare il sangue dei bambini e diagnosticare in pochi secondi se hanno la malaria.
Eseguono tra gli 80 e 90 analisi al giorno e oltre la metà risultano positive. Se non hanno febbre alta ne diarrea, ritornano a casa con delle compresse di Coartem e paracetamolo. Se sono gravi rimangono ricoverati in pediatria. “Stiamo assistendo in questo momento circa 150 bambini e abbiamo appena cominciato”, dice Etiene, l’infermiere.
La visita prosegue in un altro capannone dove si trovano i casi più gravi. Ci sono due bambini che i medici ritengono che non sopravviveranno. Louis ha due anni ed è ricoverato da una settimana. È arrivato malato di malaria e tubercolosi, in poco tempo la malattia ha toccato il rene. Non ha guarigione. Anche se lo portassero a Bangui, non ci sono macchine per dialisi. L’unica cosa che si può fare è dare un po’ di affetto. Lo stesso succede a Michel, un ragazzo di 15 anni, pelle e ossa a causa del diabete. Una malattia poco frequente in Africa, ma che non ha un trattamento per mancanza di insulina. I diabetici sono condannati nella RCA.
Maria del Pilar Severa Orga, 51 anni, è arrivata a gennaio a Batangafo, contattata da un medico di MSF. È di Zaragoza e tutti la chiamano Pitita. Approfitta dei periodi di eccedenza che le offre la sanità pubblica spagnola per iscriversi in diverse ONG in tutto il mondo. Rimarrà sei mesi nella RCA e nonostante la durezza del lavoro, non perde il senso dell’umore. È di guardia da 24 ore e i suoi occhi riflettono la fatica del giorno. Ha appena visitato due bambini che probabilmente vedrà morire prima di far ritorno a Zaragoza, ma si consola dicendo che adesso sopravvivono circa il 99% dei piccoli che arrivano in tempo all’ospedale. In Africa muoiono un milione di persone di malaria all’anno; la maggior parte bambini minori di cinque anni. La cifra è scesa alla metà dall’inizio del XXI secolo, anche se ci sono oltre 300 milioni di persone infette.
“Qui trattiamo malattie dimenticate contro le quali non esistono vaccini, ma esistono delle cure”, spiega ottimista. “Le ONG svolgono un lavoro straordinario e io sono molto contenta di poter donare qualcosa di quello che ho. Sono qui per una necessità vitale e non sento di aver rinunciato a niente. È qualcosa che senti dentro… come le missioni”.

 www.elpais.com




I BUCHI NERI DEL PIANETA

HAITI: IL RITO DEL "COMPROMESSO"

Di  Javier Ayuso – El País –Settembre 2010


Una goccia dell’Africa più povera, nel Caribe.
Estranei a tutto e a tutti, migliaia di haitiani celebrano a Saut D’Eau, circa 60 km a nord da Porto Principe, “il compromesso”. Un rituale per metà cattolico e metà vudù, che li fa entrare in trance e dimenticare la loro miseria per qualche giorno. E questo avviene perché, pur trovandosi in America, Haiti è Africa.
Con questo continente condivide le radici, il colore, le abitudini e, soprattutto, la povertà. Sette mesi dopo il terremoto, il paese è ancora in pezzi. Non soltanto gli edifici e le strade, ma anche le persone sono a pezzi. In mezzo alle macerie non ancora sgombrate, 1.300.000 haitiani vivono sotto i tetti di plastica dei campi profughi (900 nella capitale), aspettando il momento per far ritorno alle loro case. Un momento che viene posticipato di mese in mese, mentre 5.300 milioni di dollari dei principali benefattori internazionali, aspettano che si formi un Governo deciso ad attuare un progetto, che non sia intaccato dalla corruzione.
Haiti era già un buco nero prima del terremoto che uccise oltre 200.000 persone e, se non fosse per le centinaia di ONG che lavorano sul posto dal 12 gennaio, la vita sarebbe finita per i nove milioni e mezzo di abitanti del paese del Caribe. Gli haitiani sono abituati da secoli a cadere e rialzarsi, ma il pomeriggio in cui il suolo dell’isola tremò ha segnato un prima e un dopo per lo Stato più povero dell’America. I più ottimisti pensano che gli aiuti internazionali possano servire per svegliarsi da centinaia di anni di miseria e per reinventare se stessi. Ma la realtà è che gli haitiani non credono nei miracoli, anche se pregano Dio e i “loas” (i santi vudù).
Pier Janis ha 37 anni, sei dita in ogni mano e uno sguardo perso, come da strega. È una santona e dice di parlare con Dio, mentre fuma continuamente. È a Saut D’Eau da quattro giorni, dove riceve centinaia di fedeli che le si avvicinano perché faccia da tramite tra loro, Dio e i “loas”. In cambio di una piccola somma di denaro li aiuta a comunicare con l’aldilà, in una piccola grotta piena di candele accese, vicino a due cascate di 30 metri di altezza.
“Qui ho trovato da molti anni il potere dei “loas”, spiega in un miscuglio di francese e creole.
“I miei genitori avevano gli stessi poteri e me li hanno trasmessi. I fedeli vengono per essere aiutati a trovare la via. Il bene e il male convivono insieme e bisogna allontanare gli spiriti del male per trovare la buona strada. Io li aiuto”.
“Perché è successo il terremoto ad Haiti?”
La risposta tarda qualche secondo ad uscire dalla sua bocca, dopo un paio di tiri di sigaretta. “C’era molta gente che faceva del male e non pregava sufficientemente”. Dopo questa sentenza, porge la mano in cerca di alcune monete.
La festa continua accanto a due enormi cascate e ad altre tre o quattro più piccole. Centinaia di persone si accalcano mezze nude in cerca di purificazione. Si lavano con foglie di basilico e saponi che vendono all’ingresso e cantano. Ci sono molte più donne che uomini. Il rumore dell’acqua diventa uno con il frastuono delle cicale, che vogliono anch’esse partecipare alla festa.
Il giorno trascorre tra preghiere, pianti e candele accese. In un angolo, un’altra santona più avanti negli anni di Pier Janis, piange di fronte ad una fedele che è andata a consultarsi con lei. “Alleluia. Ti voglio molto bene Dio”, grida forte, mentre posa le sue mani sulle spalle della donna, che guarda il cielo con lacrime copiose. Nessuno si scompone quando inizia una pioggia torrenziale. Sembrerebbe far parte del rituale.
Poco a poco i fedeli abbandonano le cascate e scendono in paese, dove un tumulto di gente continua la festa. I credenti si mescolano con gruppi di giovani che si avvicinano come se fosse carnevale. La via principale è piena di piccoli stands alimentari in cui le donne cucinano riso, fagioli, zampe di maiale, spezzatino e banane fritte. Le bottiglie di rum passano di bocca in bocca.
Un gruppo di donne vestite in azzurro chiaro e bianco avanzano cantando in creole. Tutte loro portano lo stesso scapolare della Madonna dei Miracoli. Una di esse spiega che sono venute dal nord dell’isola per pregare. Si riconosce cattolica, ma non fa brutta faccia al vudù. “Le due cose sono simili”, dice mentre avanza verso una grande ceiba, dove si sta radunando una moltitudine di gente. In mezzo a loro Pier Janis balla, vestita di giallo, il ritmo africano dei bongo. Attorno a sé, uomini, donne, giovani e vecchi si muovono allo stesso ritmo.
È il momento del sacrificio. Diversi uomini portano due mucche e due capre alla santona, che sceglierà l’animale da sacrificare al dio Erzuli. La cadenza va accelerando e Pier Janis gira su se stessa sempre più velocemente, con gli occhi chiusi. È come in trance quando si avvicina ai quattro animali; li tocca, ci gira attorno e, finalmente, si appoggia quasi svenuta, sulla testa ed il collo di una delle mucche. È quella che ha scelto.
Mentre Pier Janis continua con i suoi balli rituali insieme ad un cerchio di fedeli, il macellatore uccide la mucca ed un getto di sangue schizza sul gruppo, provocando l’estasi generale. I canti e i balli africani diventano ancora più frenetici, uomini e donne cadono in trance, mentre dilaga il rum haitiano. La festa continuerà fino a notte inoltrata, per questa piccola popolazione che il terremoto non lo ha neppure sentito e, anzi, non lo vuole neanche ricordare.
Di ritorno a Porto Principe, il visitatore si trova davanti agli occhi un panorama desolante. Dei 9,5 milioni di abitanti di Haiti, oltre i 4,5 vivono nella capitale. Di questi, circa un milione ha perso le proprie abitazioni e si rifugia nei 900 campi sparsi in tutta la città. Nelle terrazze, piazze, giardini, campi da golf e persino nelle mezzerie delle strade di ingresso in città, ci si trova davanti decine di migliaia di capanne coperte da plastiche azzurre, nere o grigie donate dalle organizzazioni internazionali.

 www.elpais.com 



I BUCHI NERI DEL PIANETA

BANGLADESH: I BAMBINI DI STRADA

Di Javier Ayuso – El País – 25 agosto 2010


Buttati a terra come relitti umani dormono centinaia di persone sulle banchine della stazione di treni di Chittagong, la seconda più grande città del Bangladesh. La maggior parte di esse sono bambini al di sotto di 14 anni. Bambini di strada che formano un esercito di oltre 700.000 anime, la cui vita vale ben poco. Vagano durante il giorno per le città sovrappopolate del Paese bengalì, il più densamente popolato del mondo, cercando qualcosa da portarsi in bocca e riposano sotto le  intemperie, in qualunque angolo, senza curarsi dei pericoli che li circondano. Ogni giorno è una nuova avventura per delle vite senza passato né futuro: importa soltanto il presente.
È mezzanotte e fa ancora caldo, oltre 30 gradi, ma oggi non pioverà. Il cielo è stellato, nonostante il fumo dei camion che attendono, con il motore acceso, a meno di cento metri dalla stazione, pronti per scaricare la loro merce nel mercato agricolo.
È da un’ora che la polizia ha smesso di pattugliare lungo le banchine della vecchia stazione vittoriana di Chittagong e i bambini non hanno perso tempo. Ci sono centinaia di loro sparsi lungo i due km di banchine in penombra. Se non stai attento li puoi calpestare.
La gente si accalca attorno al fotografo. Hanno tempo… è l’unica cosa che hanno. I bambini non si svegliano nonostante il rumore dei curiosi, gli scatti della macchina fotografica o le candele che bisogna accendere per avere un po’ di luce. Si trovano in uno stato di semi-incoscienza, dopo un’altra giornata intera di tirare avanti in strada.
Una madre dorme con i suoi tre figli, uno di loro un bebè di pochi mesi, che abbraccia in modo protettivo. Gli altri due bambini, tra i 5 e 8 anni, non lasciano nemmeno per sbaglio i sacchi di stoffa bianca dove portano i loro averi: bottiglie di plastica vuote, qualche bidone per l’acqua, ferraglia e un po’ di riso o frutta quasi marcia che hanno raccolto in strada. La madre apre un occhio inquietata dal passare del gruppo, si accerta che i suoi bambini siano lì e stringe a sé il suo bebè.
A pochi metri, due bambini tra i 10 o 13 anni sognano intrecciati tra loro. Uno con la bocca insù e con la gamba sinistra toccando l’altro, che a sua volta ha la sua mano sul corpo del primo. È un contatto reciproco, che sicuramente li fa sentire in compagnia nella notte. Respirano profondamente, senza preoccuparsi dell’ambiente ostile attorno a loro. Non ci si può permettere la paura. Devono riposare per affrontare il giorno dopo. Appena spunta l’alba, dovranno abbandonare la stazione e cercare di sopravvivere.
Sopra un muro e sotto le scale una bambina di circa 8 anni dorme supina con le mani sul petto, come la bella addormentata che non sarà mai svegliata da un principe. Fa paura vederla lì da sola, indifesa, in mezzo alle ombre della notte di una stazione. Probabilmente è arrivata a Chittagong quello stesso giorno, in qualche treno affollato di gente, scappando da qualcosa o da qualcuno e si è sdraiata sfinita senza sapere il rischio che corre. Migliaia di bambine vengono sequestrate ogni anno in Bangladesh e vendute per la prostituzione.

TOGLIERLI DALLA STRADA
Unicef, Ayuda en Acción, Save the Children e altre ONG lavorano da anni per cercare di trovare una soluzione per un problema che si aggrava sempre più. Il Bangladesh è uno dei Paesi più poveri al mondo, con il 41% dei suoi 140 milioni di abitanti che vivono con meno di un dollaro al giorno. L’84% sopravvive con meno di due dollari al giorno.
Bambini e bambine sono le principali vittime. Quasi metà della popolazione è formata da minori  e le cifre delle disgrazie sono da brivido. Un totale di 120.000 bebè minori di un mese muoiono all’anno nel Paese (14 ogni ora), la metà di loro nelle prime 24 ore di vita. La mortalità infantile è del 52 per mille, una cifra che tocca i 65 per mille nei minori di 5 anni. Ufficialmente ci sono 7,5 milioni di bambini tra i 5 e i 15 anni che lavorano nell’economia sommersa, anche se la cifra reale supera il doppio. Questi bambini contribuiscono al 20 - 30% del reddito delle loro famiglie.
Analizzando queste cifre, prima di viaggiare in Bangladesh, scandalizza il numero di bambini e bambine che devono lavorare molto piccoli per mantenere le loro famiglie. Ma girando per le vie di Dhaka (la capitale), Chittagong, Khulna, Sirajganj, Faridpur o qualunque altra città bengalì ci si accorge che coloro che lavorano e vivono in una casa sono dei privilegiati, se paragonati agli oltre 700.000 bambini di strada. Una cifra che secondo l’Unicef toccherà 1,2 milioni nel 2014 e 1,6 nel 2024.
Subuj ha 12 anni e vive in strada da 6 mesi, anche se da tre mesi dorme in uno dei rifugi gestiti dall’Unicef a Chittagong. Suo padre è morto quando lui era ancora molto piccolo e sua madre e tre sorelle, più grandi di lui, lavorano come domestiche presso famiglie. Subuj è arrivato in città accompagnato da sua madre appena compiuti i 12 anni. Voleva cercare lavoro, ma si è perso in strada, oppure è stato abbandonato, chi lo sa.
“All’improvviso mi sono trovato da solo in strada”, spiega il bambino che ha dovuto maturare velocemente “e non sapevo cosa fare”. Si è unìto ad altri bambini di strada ed ha  dormito per alcune settimane nella stazione. “Era molto pericoloso. Prima dovevi evitare i poliziotti, che ci perseguitavano con bastoni. Una volta mi hanno picchiato duramente. Dopo ti sdraiavi a dormire per terra con la paura di quello che ti poteva capitare. I primi giorni piangevo tanto e dormivo poco, ma mi sono abituato”.
Chittagong è una città piena di immigrati da altri Stati ed ha il più grande porto del Paese e anche una dinamica attività commerciale. Motivo per cui vi giungono migliaia di persone ogni anno in cerca di lavoro. Il più grande progetto di protezione per i bambini dell’Unicef riguarda proprio questo posto.
Una giorno Subuj ha saputo che molti dei bambini che dormivano con lui nella stazione di treni andavano la mattina ad una specie di scuola all’aria aperta nel parcheggio della stazione ed è andato con loro. Lì ha conosciuto altri educatori sociali dell’ONG locale Aparajevo, che collabora con l’Unicef e pochi giorni dopo già dormiva in uno dei cinque rifugi che hanno in città. “Qui mi sento al sicuro. Di giorno vado al mercato a lavorare scaricando o spingendo carri e posso guadagnare fino a 80 takas (un euro). Ma non devo più dormire in strada”.
“Cosa vuoi fare da grande?”
La risposta è rapida: “Voglio imparare tante cose e mi piacerebbe diventare elettricista”.
Nel rifugio dormono 60 bambini ogni notte e vengono a pranzo più del doppio. Hanno le docce, tre pasti al giorno e, soprattutto, compagnia e sicurezza. Vi trovano rifugio bambini tra i 6 e i 18 anni e anche la convivenza non è facile, ma è più vivibile che dormire all’aperto.
Rifat ha 9 anni, indossa solo pantaloni e ha la testa rasata. “Avevo pidocchi”, spiega con sfrontatezza. Viene da un paese del nord, a 400 km da Chittagong ed è andato via da casa tre anni fa, quando aveva sei anni, con un suo cugino che ne aveva 10.
“Perchè sei andato via?”
“Mia madre è morta e mio padre si è risposato. La mia matrigna non voleva me, né i miei quattro fratelli maggiori”. Così si è recato a Dhaka e ha iniziato a vivere in strada, con suo cugino, per circa tre anni. Circa 200.000 bambini vivono nelle vie di Dhaka, la capitale del Bangladesh, che conta una popolazione superiore ai 16 milioni di abitanti.
“Alcune volte dormiamo nella stazione e altre nei porti, vicino al fiume, ma un giorno mio cugino andò via e rimasi da solo. Non sapevo cosa fare, salì su un treno e arrivai qui. In questa stazione mi trovo meglio che in quella di Dhaka, perché c’è meno mala gente”. Sono due mesi che si trova al rifugio e dice di essere molto contento. “Ho amici, gioco, mangio e dormo senza pioggia”. Il giorno raccoglie bottiglie vuote di plastica e le vende nel mercato; ricava circa 20-40 takas al giorno (tra i 25 e i 50 centesimi di euro).
Sono le otto di sera, l’ora della televisione. Rifat vuole andare a vedere i cartoni animati, ma aspetta a rispondere all’ultima domanda. “Cosa vuoi fare da grande?”
Rimane in silenzio, triste e confuso, come se mai avesse pensato al futuro, che realmente non esiste. Alla fine, dopo aver riflettuto molto, dice guardando a Habib, il direttore del centro che fa da interprete, che gli piacerebbe lavorare in una concessionaria. E scappa correndo a vedere la tv, con i suoi 60 compagni del rifugio. Bambini che sono cresciuti in strada, ma che ritornano alla loro infanzia di fronte ai cartoni animati che ipnotizzano tutti loro, seduti a terra, scalzi, godendo di alcuni momenti di felicità.
In un angolo c’è Alauddim, 12 anni, una maglietta senza maniche azzurra e un orecchino di argento nell’orecchio destro. Ha uno sguardo furbo e si vede che si guadagna da vivere bene in strada. Sono tre mesi che dorme nel rifugio, dopo aver dormito per altri tre nella stazione. È orfano, viveva con uno zio materno, ma all’età di dodici anni lo buttarono fuori di casa, a circa 100 km da Chittagong e venne in questa città con un altro bambino, dove raccoglie pezzi di metallo da terra e li vende.
“Ho già molti soldi risparmiati”, dice con un grande sorriso “quasi 300 takas (meno di quattro euro). Spendo molto poco di quanto raccolgo in strada e sto risparmiando per aprire un negozio dove vendere molte cose. Qui mi custodiscono i soldi, perché una volta alcuni bambini più grandi mi hanno rubato in strada”. Ogni bambino ha il proprio libretto nel rifugio dove hanno i loro risparmi.
Chi non ha nessun risparmio è Shalim, il più piccolo dei bambini della casa. Non sa quanti anni ha; alza le spalle e sorride. Non ha più di 6 anni. È venuto a Chittagong due o tre mesi fa con sua madre, due sorelle e un fratello. Sua madre ha abbandonato i due bambini in strada quando ha trovato lavoro come domestica ed ha sistemato le sue figlie in altre case. Un lavoratore sociale ha trovato Shahim dormendo in strada e lo ha portato al rifugio qualche settimana fa. Era molto triste i primi giorni, non usciva da casa, ma dopo ha imparato a vivere in strada.
“Cosa fai in strada?”
“Niente. Salgo su un pulman che va all’università e mi incontro con bambini più grandi che mi danno qualcosa da mangiare. Poi prendo di nuovo il pulman per vedere la televisione e fare cena”.
“Hai più visto tua madre?”
“No”, dice trattenendo le lacrime “però la troveranno e poi andrò con lei. Un giorno ho visto mio fratello e mi ha detto che saremo andati a trovarla. Ma lui non ha voluto venire a dormire con me. Non l’ho più visto”. Sarà uno dei 70.000 che dormono nelle strade di Chittagong.
L’ultimo arrivato al rifugio, cinque giorni fa, è Rasel, 12 anni e lo sguardo triste. Indossa soltanto un pantalone corto di colore rosso ed ha le costole tanto visibili che si possono contare. Si vede che ha patito la fame. “Sono andato via da casa due settimane fa”, dice. “Mia madre è andata via con un altro uomo e mio padre si è risposato con un’altra donna che ha cinque figli. Non mi volevano e la mia matrigna mi sgridava e mi picchiava, così sono andato alla stazione e ho preso un treno per Chittagong, perché avevo sentito dire che qui c’erano molti mercati dove lavorare”.
Si tocca una piccola cicatrice recente sotto l’occhio sinistro e dice che non ricorda come si è ferito. “Qui mi trovo molto bene”, spiega con un sorriso forzato, “meglio che in casa, perché nessuno mi picchia. Ancora non ho amici, ma lavoro nel mercato spingendo carri e ieri mi hanno dato 40 takas (50 centesimi di euro). Voglio lavorare in un ristorante”.
È l’ora di cena. La cuoca, Aìda, spegne la televisione e si siede a terra, a un lato della grande stanza, su una stuoia dove è posata una grande pentola di riso bianco, altre due ciotole di pollo con verdure e un’altra con brodo. I 60 bambini si siedono a terra in un grande cerchio e i più grandi si avvicinano per prendere le ciotole che Aìda serve. Non cominciano a mangiare fin quando tutti non hanno la loro ciotola e allora si spengono i bisbigli e si fa silenzio mentre tutti mangiano con le mani fino a lasciare i piatti vuoti.
Mezz’ora dopo consegnano le ciotole e vanno a dormire. Ci sono delle stuoie a terra e si sdraiano ammassati. I più grandi occupano i posti migliori e i piccoli cercano riparo accanto a loro. Quando si spegne la luce, piano piano, il silenzio regna nella stanza.

IL MERCATO DEI BAMBINI
La mattina il mercato di frutta adiacente alla stazione è un autentico formicaio. Nel Bangladesh le strade sono sempre estremamente affollate. I carri di legno pieni di enormi ceste di mango, ananas o verdure appena riescono a circolare tra le bancarelle, in mezzo ad un enorme ingorgo che rende il lavoro più penoso ancora. Davanti ad ognuno di essi un uomo incurvato fa le veci di animale da carico, tirando il carro. E dietro uno o due bambini tra i 12 e i 15 anni spingono fino al limite delle loro forze. Ci sono centinaia di loro lottando per trovare un lavoro. Lì troviamo Shaju, Rasel e Subuj che salutano con un sorriso senza smettere di spingere, con un enorme sforzo persino per un adulto, i carri che avanzano faticosamente tra le bancarelle. Sono solo bambini, ma devono lavorare come uomini.
Attraversare la via principale di Chittagong piena di camion, autobus, macchine, “tuc tucs” e “ricshaws” è un’autentica avventura. Dall’altra parte si trova il mercato di Riazuddin, più grande di quello della frutta e anche affollato, pieno di bancarelle di vestiti, libri, utensili… Nella zona più buia si ammucchiano decine di bambini con i loro sacchi bianchi pieni di plastica, cartoni, rottami, che cercano compratori. Alaudim è il più vivace, è riuscito a svuotare il suo sacco pieno di piccoli rottami e si porta in tasca una banconota stropicciata di dieci takas prima di ritornare in strada in cerca di altri tesori. Ha ancora dieci ore per cercare di arrivare alla somma di 70 o 80 takas e aumentare i suoi risparmi e riuscire, un giorno, ad aprire il negozio dei suoi sogni.
Al secondo piano di una specie di centro commerciale pieno di locali per mangiare sporchi, che lì chiamano ristoranti, troviamo l’altro centro dell’ONG Aparajevo. Lo chiamano “drop in center”, perché i bambini della strada appaiono all’ora di pranzo o a qualunque ora del giorno per riposare, giocare o lavarsi. È stato aperto nel 2001 e sono passati da qui circa 1.000 bambini.
Mentre aspettano il pranzo, diverse decine di bambini giocano a terra, in gruppi di quattro, a caremboard, un misto di gioco da tavolo e bigliardo americano. Devono tirare dei gettoni con le dita e azzeccare i quattro buchi posti negli angoli del tabellone. Shakil, 9 anni, è il campione. Non sbaglia quasi mai e ride ogni volta che ci riesce. È come ritornare alla vita come spetta ad ogni bambino dopo aver svolto una giornata lavorativa da uomo e una notte di sonno all’aperto.

LE BAMBINE CORRONO UN DOPPIO RISCHIO
A nord della città l’Unicef ha uno dei suoi tre centri per bambine. Il 30% dei piccoli che vivono nelle strade delle città del Bangladesh sono bambine e corrono anche il rischio di venire rapite per essere vendute ed essere inserite nel circuito della prostituzione. Nel rifugio di Khaza Road ci sono 90 bambine, 50 sono interne, le altre tornano a dormire a casa. Lì ricevono educazione, nutrimento e affetto. Hanno preparato una recita con canti e balli per ricevere gli ospiti.  La giornata trascorre nella gioia, ma in un angolo della sala attira la mia attenzione una bambina molto fragile dagli occhi tristi, capelli corti e con una maglietta lunga, che non presta attenzione alla festa. Alla fine la direttrice del centro, Nasima, racconta la storia di Tanznia che non lascia la sua mano nemmeno per un istante. “Ha 8 anni ed è qui da 45 giorni”, dice. “Un vicino l’ha trovata dormendo per strada e l’ha portata qui”.
In tutto questo tempo non sono riusciti a conoscere la sua storia e dalle sue parole non si riesce a capire molto. Risponde con voce triste alle domande, senza smettere di guardare la direttrice alla quale si abbraccia ancora più forte. Dice che vuole ritornare con i suoi genitori, ma non sa dove sono e dice che ha un fratello che era con lei in strada quando si è persa.
Lo psicologo del centro pensa che la bambina abbia avuto uno shock e vuole dimenticare tutto, non ha segni di violenza nel suo corpo. Sicuramente ha avuto uno shock per qualcosa che ha visto.
La formazione è una parte importante del progetto che mira a togliere i bambini e le bambine dalla strada. Viene insegnato loro un mestiere affinchè possano lavorare quanto prima. Vicino al centro per bambine, in una enorme falegnameria, lavorano da due mesi cinque ragazzi di 15 e 16 anni, che dormono nel rifugio di Purba Naslrabad. Presto saranno in grado di cercarsi un luogo dove vivere.
Sumon ha 16 anni e sembra il più vivace. Si impegna a fondo a passare la carta vetrata su una porta di legno al centro del magazzino dove lavorano cento persone. Lavora 12 ore al giorno, ma si sente fortunato di avere trovato questo lavoro dopo un anno di formazione e, soprattutto, perché guadagna 3.000 takas al mese (quasi 40 euro). Come molti altri bambini di strada è andato via da casa quando è morta sua madre e suo padre non gli prestò più attenzione. Aveva 13 anni e ha vissuto un anno intero in strada, fino che ha trovato il rifugio.
Molto vicino alla falegnameria, al primo piano di una casa molto piccola, lavora un’altra delle bambine tolta dalla strada. Si chiama Chappa, ha 15 anni ed è sarta. Sta cucendo una camicia in una vecchia macchina da cucire e sembra felice, seppure la sua storia non lo sia. Aveva 13 anni quando sua madre la portò in città e la lasciò in una casa come domestica. “La signora della casa mi trattava molto male”, spiega “non mi pagava, mi dava molto poco da mangiare e a volte mi picchiava. Dopo un mese sono tornata a casa dove viveva mia madre, ma era andata via con un altro uomo a un’altra città. Sono rimasta molto triste e stavo piangendo per strada quando una donna si avvicinò a me e mi disse se volevo lavorare a casa sua. Dissi di sì, ma dopo arrivò la polizia e ci portò in carcere”.
Era una trafficante di ragazze, che le attirava per strada e le vendeva per farle diventare prostitute. Chappa si è salvata per miracolo e adesso si trova nel rifugio di via Khaza, dove ha imparato un ufficio che le ha permesso di cominciare una nuova vita.

 www.elpais.com