Bruciano i palazzi del potere: 500 arresti
La polizia spara proiettili di gomma sulla folla. Muoiono un agente e un manifestante
IL CAIRO - D´improvviso sul marciapiede tutti cominciano a correre, coordinati come stormi di uccelli. I negozi tirano giù le serrande, facendo entrare pochi fortunati. A volte lo scatto collettivo è preceduto da un lancio di lacrimogeni. Prima scappavano dalle cariche della polizia, che non avrebbe alcuna intenzione di assistere a un bis del «giorno della collera». Poi, verso sera, anche dalle pallottole di gomma. I dimostranti, al Cairo e altrove, non hanno rispettato l´ordine del ministero dell´Interno: «Nessuna manifestazione sarà consentita». Martedì il grande rogo si è concentrato in piazza Tahrir, ieri i focolai sono stati più numerosi. Sulle centralissime vie Galaa e 26 Luglio, vicino all´Hilton Ramses, davanti al sindacato dei giornalisti, verso il ministero degli Esteri, dappertutto: almeno due i morti di ieri nella capitale, un poliziotto e un manifestante.
A Suez, che aveva il primato delle prime tre vittime, hanno dato fuoco al palazzo del governo. Nonostante i 500 arresti, bilancio molto provvisorio delle due giornate. Nonostante i 250 feriti tra i manifestanti e circa 100 tra le forze dell´ordine. Coordinati tra loro via telefonino, gruppi di giovani appaiono e cominciano a sfidare i soldati. Sassate, blocchi stradali, pneumatici bruciati, sino alla reazione. A quel punto anche le auto, già notoriamente indisciplinate, accelerano nel fumo urticante, sfiorando i tanti riversati in strada.
In mattinata la macchina della sicurezza credeva di avercela fatta. Intorno a piazza della «liberazione» agenti sloggiavano chiunque si fermasse per più di qualche minuto. Nelle vie circostanti c´erano file di camion di soldati in tenuta antisommossa. Ma il dispiegamento non è bastato a prevenire una rivolta più liquida, che si accende come un flash mob. Le scene di violenza urbana hanno convinto Hillary Clinton a parlare, con l´autorevolezza dei 28 miliardi di dollari di aiuti che ogni anno l´America stanzia: «Invitiamo le autorità egiziane a non proibire proteste pacifiche né a bloccare la comunicazione, inclusi i social network». Per il ruolo che hanno avuto in altri abbozzi di rivoluzione, dalla Birmania all´Iran, il riferimento non sorprende. Al punto che il governo ha negato di aver censurato Facebook o Twitter (a vari tentativi, il primo funzionava, il secondo no).
Se martedì gli slogan erano rivolti al vecchio leader, ieri hanno bersagliato anche il possibile successore: «Gamal, dì a tuo padre che gli egiziani ti odiano». Non c´è analista che, dietro garanzia di anonimato, non ammetta che le chance del primogenito alle elezioni del prossimo settembre sono precipitate. Da qui a scommettere su una replica di Ben Alì, ce ne corre. «Però una soglia è stata superata» dice al telefono lo scrittore Ala Al-Aswani, che nel suo Palazzo Yacoubian aveva denunciato l´irreparabile corruzione del Paese, «la soglia della paura. Gli aedi del regime continuano a dire che questa non è la Tunisia, siamo meno istruiti, meno attivi. Ma questi ragazzi stanno dimostrando che sono disposti a reclamare i loro diritti. Anche con la forza». L´incendio non è spento e nessuno sa esattamente come sia meglio domarlo.
L´interrogativo tornerà a proporsi domani, venerdì, giornata in cui sono state convocate altre manifestazioni: al Cairo ci sarà anche Mohammed El Baradei, che rientra oggi. Il premio Nobel per la Pace, ex direttore generale dell´Aiea (l´agenzia Onu per l´energia atomica) ha incarnato a lungo la speranza di chi sogna un Egitto democratico: anche per lui la sfida è aperta.
REPUBBLICA 27 GENNAIO 2011
A Suez, che aveva il primato delle prime tre vittime, hanno dato fuoco al palazzo del governo. Nonostante i 500 arresti, bilancio molto provvisorio delle due giornate. Nonostante i 250 feriti tra i manifestanti e circa 100 tra le forze dell´ordine. Coordinati tra loro via telefonino, gruppi di giovani appaiono e cominciano a sfidare i soldati. Sassate, blocchi stradali, pneumatici bruciati, sino alla reazione. A quel punto anche le auto, già notoriamente indisciplinate, accelerano nel fumo urticante, sfiorando i tanti riversati in strada.
In mattinata la macchina della sicurezza credeva di avercela fatta. Intorno a piazza della «liberazione» agenti sloggiavano chiunque si fermasse per più di qualche minuto. Nelle vie circostanti c´erano file di camion di soldati in tenuta antisommossa. Ma il dispiegamento non è bastato a prevenire una rivolta più liquida, che si accende come un flash mob. Le scene di violenza urbana hanno convinto Hillary Clinton a parlare, con l´autorevolezza dei 28 miliardi di dollari di aiuti che ogni anno l´America stanzia: «Invitiamo le autorità egiziane a non proibire proteste pacifiche né a bloccare la comunicazione, inclusi i social network». Per il ruolo che hanno avuto in altri abbozzi di rivoluzione, dalla Birmania all´Iran, il riferimento non sorprende. Al punto che il governo ha negato di aver censurato Facebook o Twitter (a vari tentativi, il primo funzionava, il secondo no).
Se martedì gli slogan erano rivolti al vecchio leader, ieri hanno bersagliato anche il possibile successore: «Gamal, dì a tuo padre che gli egiziani ti odiano». Non c´è analista che, dietro garanzia di anonimato, non ammetta che le chance del primogenito alle elezioni del prossimo settembre sono precipitate. Da qui a scommettere su una replica di Ben Alì, ce ne corre. «Però una soglia è stata superata» dice al telefono lo scrittore Ala Al-Aswani, che nel suo Palazzo Yacoubian aveva denunciato l´irreparabile corruzione del Paese, «la soglia della paura. Gli aedi del regime continuano a dire che questa non è la Tunisia, siamo meno istruiti, meno attivi. Ma questi ragazzi stanno dimostrando che sono disposti a reclamare i loro diritti. Anche con la forza». L´incendio non è spento e nessuno sa esattamente come sia meglio domarlo.
L´interrogativo tornerà a proporsi domani, venerdì, giornata in cui sono state convocate altre manifestazioni: al Cairo ci sarà anche Mohammed El Baradei, che rientra oggi. Il premio Nobel per la Pace, ex direttore generale dell´Aiea (l´agenzia Onu per l´energia atomica) ha incarnato a lungo la speranza di chi sogna un Egitto democratico: anche per lui la sfida è aperta.
REPUBBLICA 27 GENNAIO 2011