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SUDAN, LA CORSA ALL’ORO NEL FANGO DELL’ULTIMA AFRICA
Duecentomila cercatori a mani nude, ma c’è chi investe in un metal detector

DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI
L’oro è lì, c’è, bisogna frugarlo dove l’Africa fa un gigantesco scalino di pietra roso dal tempo e dal vento prima di precipitare verso il deserto egiziano. L’oro. E’ sparito il velluto verde delle praterie , un paesaggio desertico e lunare assedia il Nilo con immense distese aride, è un deserto di pietra color del bronzo e del rame; nelle ore meridiane la terra vi raggiunge una temperatura di altoforno, brucia i piedi, riduce tutto in cenere. Chi ha condannato questi esseri umani avvolti in fute sudice, pattuglie mute patinate di polvere, a questo atroce esilio? Perché? Per quali colpe? Nessuno sa come è cominciato. Forse per una voce. Antica come la storia dell’Africa.
Nel nord del Sudan i faraoni neri, i mitici signori di Meroe, estraevano l’oro per i loro splendori quando l’Europa ancora guaiva nelle tenebre. Tra Abbara e Abou Hamed, a 500 chilometri dai minareti di Karthoum, il mormorio non è mai cessato: l’oro è lì, bisogna lottare con la pietra, e diventa tuo. Due anni fa il corso del metallo giallo è bruscamente aumentato; ed la corsa all’oro. Qui, nel cuore dell’Africa: affannata, mitologica, feroce come nell’America di un secolo fa. Ci sono duecentomila persone, almeno, un formicaio impazzito, sudato, esausto ma implacabile come il sogno di diventare ricchi, che con i rilevatori di metallo setacciano il deserto sudanese. E’ una febbre, un delirio, che li fa arrivare da ogni parte del Sudan. Fino a poco tempo fa in questa zona le uniche ad offrire lavoro erano le squadre di archeologi che cercano le testimonianze del fastoso autunno dei faraoni africani. Ora non trovano più operai per setacciare il deserto. Tutti cercano l’oro. Molti hanno gettato via i loro mestieri, salutato le famiglie: per una pietra che dà appena tanto oro da colorare un polpastrello, meno a che toccare l’ala di una farfalla.
Eppure hanno ragione: l’oro c’è, lo dicono anche i geologi che parlano di serbatoi inesplorati nascosti sotto la roccia che bisogna triturare, far diventare scheggia, e poi polvere per portarle via il metallo. Ci credono le grandi compagnie minerarie internazionali. A Haassi, nel Nord Est, «Ariab» l’anno scorso ha estratto sessantamila once. Altre sigle, come la francese «Areva» fanno la fila per ritagliarsi concessioni grandi come il Belgio. Tra poco invaderanno il deserto con le mandibole di immense perforatrici, fiumi di sassi si metteranno in marcia su tappeti semoventi. Ma per ora il deserto è di questi piccoli uomini, dei loro pick-up sbrindellati, dei villaggi fetidi cresciuti dal nulla dove si riforniscono e si concedono brevi soste febbrili. Perchè sanno di vivere, camminare, sudare sopra l’oro, vorrebbero avere mani di acciaio per rovesciare le fondamenta del mondo e scoperchiare al sole il tesoro. La sera si riuniscono eccitati attorno a quelli che hanno avuto fortuna, si fanno raccontare e riraccontare il giorno in cui il fruscio del metal detector ha cominciato a impazzire. Come a Mukhtar che crepava di miseria facendo il commerciante, e che in quattro mesi ha già guadagnato abbastanza per comprare due auto usate.
Si sono indebitati per comprare i rilevatori di metalli dell’ultima generazione che costano alcune migliaia di dollari, quelli che non sono riusciti a convincere gli usurai di città si sono riuniti in piccole compagnie, con l’impegno di spartirsi la ricchezza quando arriverà. Altri hanno stretto accordi con chi possiede vecchie scavatrici che sollevano la roccia per scoperchiare una terra color sangue.
Ma ci sono anche i disperati, coloro che hanno solo le mani e nessun strumento. Loro stanno ad Al Abidiya, un villaggio sorto dal nulla vicino al Nilo. Dove viene scaricato il minerale portato dal deserto, frantoi alimentati da generatori color ruggine che tossiscono per l’età e la cattiva manutenzione, lo triturano, lo trasformano in piccole colline che il vento avvolge pigramente di polvere. Non si vedono donne o bambini, qui, solo uomini. Immondizie asciugate dal vento, baracche rattoppate con lamiere e cartone, rivoli di acqua sudicia, mosche irritate in fitti nugoli neri, cigolii, clangore di catene.
Uomini seminudi, i piedi immersi in vasche di acqua prelevata dal fiume, rimestano la polvere di roccia mescolata al mercurio per isolare il metallo giallo. Piccoli laghi di bagni chimici, di un verde lattiginoso. Ferro che infrange, acqua che lava. Pietra nata dalle lontane conflagrazioni cosmiche si sbriciola. Dentro ogni tanto una polvere di sole. Un grammo d’oro rende novanta sterline sudanesi (35 dollari). Il mercurio finisce nel Grande fiume, lo avvelena, la ricchezza diventa morte.
LA STAMPA 20 AGOSTO 2010