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LA LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA NELL’ISOLA INFESTATA DAL COLERA
Port-au-Prince- Wharf Jéremie, il “porto Jéremie”, nel quartiere di Cité Soleil, è la bidonville più pericolosa di Port au-Prince, dove si annidano i criminali più ricercati, dove sarebbero scappati i detenuti del carcere crollato con il terremoto, dove si nascondono i trafficanti di droga più violenti del paese.
Robert è nato qui. Fino a 5 anni fa faceva parte di una banda del quartiere, andava sempre in giro armato e portava addosso i segni di una vita fatta di violenza e privazioni. Dal 2005 lavora come infermiere in un centro voluto con tenacia da una suora francescana di Busto Arsizio, Marcella Catozza. Come la maggior parte delle abitazioni di Wharf Jéremie, la casa di Robert è una baracca fatta di pezzi di lamiera, qualche asse di legno, cartone pressato e stracci a mo di tende. Oltre a lui ci abita Sirya, sua sorella, Jean, suo cognato, e 5 bambini tra i 2 e i 9 anni. Vivono in un solo ambiente con il pavimento di terra. Sono fortunati   perché l'elettricità riescono a rubarla attaccandosi abusivamente a un cavo che passa vicino alle loro teste, ma la gran parte dei 70 mila abitanti di questa bidonville non ha la luce. L'acqua invece manca a tutti. Per lavare si raccoglie quella di scolo, dove convivono bambini, maiali, capre, polli, cani e donne che lavano i panni.
“Le elezioni? Qui non ci interessano”
NEI GIORNI SCORSI Port au-Prince è stata assediata dopo la proclamazione di risultati elettorali provvisori del primo turno delle elezioni presidenziali. Ma qui a Wharf Jéremie sembra che la gente non sia preoccupata della situazione politica. La maggior parte degli abitanti della bidonville non sono nemmeno andati a votare perché non hanno un documento di identità e questo quartiere sembra un'isola di disperazione all'interno dell'isola di Haiti. “A Wharf Jéremie nessuno si preoccupa veramente di quello che succede durante le elezioni   – spiega Joseph, uno dei guidatori di moto taxi che aspettano clienti di fronte al mercato del porto – e in questo quartiere non c'è stata una vera campagna elettorale, perché comunque non potevamo votare. Da noi ci sono regole diverse: si decide in un altro modo chi comanda. Il governo deve solo garantire che questi equilibri si mantengano. Poi, nei periodi elettorali arriva qualcuno, ti dà dei soldi o qualcosa da mangiare e ti dice che devi partecipare a una manifestazione, o fare casino, o bruciare un po’ di auto. E tu vai e lo fai”.
Poco più di un mese fa, a poche centinaia di metri dalla baracca di Robert, suor Marcella stava per inaugurare una piccola clinica pediatrica, ma quel giorno la religiosa italiana trovò i primi malati di colera del quartiere davanti alla porta della sua nuova clinica, pensata per i bambini, e iniziò a curarli d'urgenza. Nelle prime settimane dell'epidemia arrivavano tra i 40 e i 60 malati al giorno. Oggi il flusso si è ridotto a una   decina (finora le vittime sono 2.500 alle quali aggiungere almeno 45 persone linciate con l’accusa di diffondere il morbo, ndr), anche grazie alle accortezze igieniche che la suora ha imposto agli abitanti della zona, distribuendo sapone, secchi per lavarsi e pastiglie di cloro per disinfettare l'acqua. Marcella lavora con l'appoggio del vescovo e la collaborazione di alcune ong italiane e brasiliane e vive ad Haiti da 5 anni. “A nessuno piace vivere a Wharf Jéremie; questo posto è terribile e io per prima vorrei essere altrove. Ma quando senti tante persone che passano per Haiti, più o meno di corsa, e se ne vanno con la convinzione che questo paese non ha alcuna speranza, io penso al lavoro che abbiamo fatto in questi anni e mi sento un po' meglio. È senz'altro un'impresa da pazzi, e magari i più disillusi hanno ragione quelli. Ma in un posto così violento, dove nemmeno i caschi blu della Minustah (la Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione di Haiti, ndr) entrano   con i loro carri armati, si può ripartire per migliorare l’intero paese”.
L'avversione per la Minustah è uno dei pochi elementi unificanti di un paese diviso su tutto: sulla   politica, sulla religione, perfino sul calcio, lo sport di cui tutti sono fanatici. E che viene preso così sul serio che il candidato dell'Inite, Jude Célestin, per avere più appeal su un popolo ossessionato dal pallone, ha scelto per la sua campagna elettorale i colori della nazionale brasiliana (verde e giallo) e per sé il numero 10, che ad Haiti, legato a quei colori, significa automaticamente “Ronaldo”. Come racconta un funzionario addetto alla logistica del World Food Programme, “durante il mondiale in Sudafrica, ad Haiti è stata spesso a rischio la sicurezza pubblicaperledivergenzediopinionitraletifoserie,divisetrabrasiliani e argentini”.
Forse per questo motivo nel Vilaj Italyen, la piccola comunità guidata da suor Marcella, oggi si apre   un torneo di calcetto in un campo nuovo di zecca. Non ci sarebbe nulla di speciale se non fosse il primo torneo nel primo campo di calcio costruito a Wharf Jéremie. “È un modo di portare un po’ di gioia a questa gente – spiega suor Marcella – nessuno qui si dimentica i morti del terremoto di un anno fa, la miseria e la frustrazione di vivere emarginati in un paese dimenticato. L'idea di partecipare a un torneo restituisce un po’ di senso, e solleva gli animi”. Per il resto qui c'è solo di che preoccuparsi.
Ospedali e paura del contagio
IL COLERA non accenna ad arrestarsi. Anzi, gli operatori sanitari internazionali stanno preparandosi alla peggiore delle eventualità, come afferma il dottor Lorenzo Somarriba, vice ministro della sanità cubano e capo della missione trilaterale Cuba-Venezuela-Haiti. “L’emergenza non è conclusa. Le condizioni igienico sanitarie di Haiti sono difficilissime e ci aspettiamo un nuovo picco di contagi, che potrebbe manifestarsi anche fra 6 mesi. Per questo continuiamo ad allestire i centri di trattamento del colera in tutto il territorio, soprattutto nelle zone più difficili da raggiungere. In questo momento ci sono almeno un milione e mezzo di persone a grave rischio contagio”. I medici della Brigata medica internazionalista di Cuba, con i loro 47 centri dove lavorano più di mille uomini, insieme a Medici senza frontiere rispondono a più dell'80% delle necessità sanitarie dell'isola. Il nuovo centro per il colera di Carrefour, periferia sud di Port au-Prince, viene allestito in poche ore. Gli operatori sani-tari cubani si mettono tutti all'opera per scaricare il materiale dai camion e montare cinque tende da venti letti ciascuna. A fianco al centro si estende un’enorme baraccopoli sorta all'indomani del terremoto. La brigata cubana è molto amata dalla popolazione, che conta sull'appoggio dei suoi medicidal1998. Rispetto a molte delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, che spesso non ottengono grandi risultati a fronte di spese milionarie, i cubani vantano la maggior “diffusione” sull'isola e ottimi risultati (nei loro ospedali c’è il minor   tasso di mortalità infantile), guadagnando 270 dollari al mese. Uno dei leader della baraccopoli di Carrefour discute animatamente con il dottor Gonzalo Estevez Torres, epidemiologo e responsabile del nuovo centro. La gente non vuole che l’ospedale “attragga” malati provenienti   da altre zone della città. Ma quando si rende conto che la struttura è pensata per assistere solo gli abitanti di quel quartiere si può iniziare a costruire. Ma, in tutto questo caos, dove vengono portati i tantissimi morti?
“Lavoravo la terra dove ora ci sono i cadaveri”
TITAYENNE è un insieme di baracche in mezzo alla campagna, di fronte al mare e a un lato della Route Nationale 1. Le baracche sono fatte di pali di legno e pezzi di tende con i simboli dell’Onu o di Usaid. A trenta chilometri a nord di Port au-Prince la gente vive di agricoltura, qualche vacca denutrita e il poco che arriva dal bordo della capitale. Lasciando la strada e il mare, dietro una delle colline della zona, si arriva a una piccola vallata nascosta. Dall'alto si intuisce che è un luogo speciale e si respira un'aria tetra, di morte. La terra è bruciata e in mezzo alla sterpaglia sorgono decine di piccole croci bianche di legno.   Nessuna di esse ha un nome. La gente della zona conosce questo posto perché nei giorni successivi al terremoto arrivavano quotidianamente camion, auto, carretti, pieni di corpi da seppellire. “È molto triste ripensare a quei giorni – racconta Charles, un contadino che sta cercando di costruirsi una capanna con dei teloni nuovi, arrivati da chissà quale missione – io lavoravo qui e ho dovuto lasciare il mio orto per aiutare a seppellire i corpi. Erano centinaia di cadaveri”. Nelle ultime settimane sono sorte delle piccole montagnole, nella valle di Titayenne: al tempo del colera questo luogo è tornato attivo.   Nella valle arrivano carichi di cadaveri dalla città, i morti di colera che non trovano posto altrove. C'è una fossa aperta. Dentro, una decina di cadaveri sono avvolti malamente in sacchi di plastica buttati sul fondo, in attesa che altri morti riempiano la fossa e si possa chiuderla con la terra rossa. Forse, così, almeno questi morti (che non saranno gli ultimi di Haiti) troveranno un po’ di pace.  
I vivi e i morti Giovani nella bidonville di Wharf Jéremie; sopra una croce nel cimitero “delle fosse comuni” della valle di Titayenne.
di Federico Mastrogiovanni
IL FATTO QUOTIDIANO 24 DICEMBRE 2010