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HAITI. L’ISOLA DEI COLPI DI STATO DOVE SI MANGIA L’ARGILLA E LA NATURA COMPIE STRAGI
Le cifre L’ottanta per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Rivolte per la fame nelle strade di Port-au-Prince
Due secoli fa la liberazione dalla schiavitù Da Papa Doc a Aristide, violenze e fallimenti
S e pa fotmwen. Se una frase potesse definire un Paese e il suo posto nel mondo, per Haiti varrebbe questa: se pa fotmwen. In creolo vuol dire «non è colpa mia». E’ una frase del vocabolario quotidiano di Port-au-Prince, dove l’80% della popolazione vive con meno di 2
dollari al giorno. E forse è anche una password per entrare nella storia (rovinosa) di un Paese che ebbe il suo primo (e unico) momento di gloria due secoli fa, quando i neri guidati da Toussaint Louverture prima di tutti gli altri si liberarono della schiavitù e cacciarono i soldati francesi mandati da Napoleone a domare la rivolta.
Di chi è la colpa se una ricca repubblica dei Caraibi — coperta da foreste meravigliose e avendo al comando un Obama ante-litteram portatore dei principi sincretici di egalité, fratérnité e religione vudù— è riuscita a diventare il luogo più miserabile e spelacchiato dell’emisfero occidentale, dove nei mercati delle baraccopoli c’è chi per sopravvivere va a «achté tè» ovvero comprare tortine fatte di terra? Se pa fot mwen dicono i poveri nelle baracche di Cité Soleil o Delmas controllate da gang criminali che hanno fatto dei sequestri  un’industria: espressione rassegnata ominacciosa che serve ai più per contemplare la propria miseria (in alternativa a TiTanyin, meglio che niente) mentre ai ricchi (l’1% possiede metà delle ricchezze) serve per girare gli occhi dall’altra parte, verso le dimore dorate e murate sulla collina di Pétionville. «Non è colpa mia» è la frase giusta per la comunità internazionale— che ha fatto molto ma non abbastanza— e pure per la moglie di un ex console italiano che cinque anni fa disse al Corriere che in fondo i disgraziati di Cité Soleil si meritavano quello che (non) avevano. La frase giusta dopo un terremoto: di chi è la colpa se quel pezzo dell’isola che Cristoforo Colombo nel 1492 chiamò Hispaniola sta lì in bilico sulla microplacca di Gonaives, tra le grandi placche del Nord America e dei Caraibi a Sud? Se la faglia è simile a quella di San Andreas che minaccia di far saltare un giorno la California? La cosiddetta «diplomazia delle catastrofi» che talvolta riavvicina Paesi nemici servirà a unire un Paese da sempre diviso lungo immutabili faglie socio-economiche?
La muraglia che si vedeva sulla collina di Pétionville— costruita attorno alle ville di quella che a Haiti si chiama ancora «borghesia» — dev’essere stata danneggiata così come il palazzo del presidente sui Campi di Marzo e le baracche di lamiera di Cité Soleil tra i fetori del porto, dove i bambini razzolano nella fogna a cielo aperto. Se pa fot mwen si può dire davanti a certi disastri naturali. Ma Haiti è anche un concentrato di disastri prodotti (o non ostacolati) dagli umani. Che ironia, un terremoto nel Paese dell’immobilismo: nell’arco di 200 anni la schiera di liberatori, dittatori, generali, religiosi e politici che si sono rubati più o meno fallosamente la palla del potere hanno lasciato ogni volta inalterato il campo della società. E quasi sempre l’hanno lasciato con le proprie gambe, verso un tranquillo esilio.
Già nel gennaio 1904, celebrando un secolo dalla rivolta di Toussaint, l’allora presidente haitiano Rosalvo Bobo disse ai concittadini di essere «stanco delle nostre stupidità» e bollò il tempo trascorso come «un secolo di schiavitù di negri su negri». Spronò gli haitiani a
cambiare strada in modo tale che, nel gennaio 2004, i loro discendenti avessero qualcosa da celebrare. Come non detto, Bobo: le celebrazioni del bicentenario si rivelarono l’occasione per una nuova rivolta e l’ennesima defenestrazione. Al potere a Port-au-Prince c’era Jean- Bertrand Aristide, ex sacerdote cattolico cacciato dalla Chiesa per i suoi estremismi da teologia della liberazione. Sognava una grande festa con invitati da tutto il mondo. Solo il presidente sudafricano Thabo Mbeki mostrò qualche interesse. Ma neppure lui alla fine si presentò. Un paio di mesi dopo Aristide fu costretto ad andarsene: forze ribelli conquistarono la città di Gonaives (quella che dà il nome alla maledetta microplacca tettonica) nel Nord del
Paese. Erano una ciurma eterogenea quanto violenta di poche centinaia di uomini: ex soldati e scherani delle cosiddette «chimere», i temuti gruppi paramiltiari di cui lo stesso Aristide si era servito contro gli oppositori e per tarpare le recenti proteste studentesche all’università di Port-au-Prince. Nella capitale il fronte anti-Aristide, fuori e dentro i palazzi della politica, prese forza. A fine gennaio il presidente disse al New York Times: «Non me ne vado. Haiti ha subìto 32 colpi di Stato che non hanno mai portato niente di buono». Un mese dopo fu lui stesso a cadere vittima del 33esimo golpe: con il lasciapassare degli americani fu imbarcato su un aereo per il Sudafrica, dove dall’esilio ancora oggi annuncia di tanto in tanto il suo improbabile ritorno. Primo presidente liberamente eletto dagli haitiani nel ’90, otto mesi dopo
Aristide fu rimosso da una colpo di Stato in cui il generale Raoul Cedras mise soltanto la faccia, un mento lungo sotto gli occhiali a specchio. Cedras era soltanto l’esecutore, i
mandanti stavano nelle ville di Pétionville e in quelle di Miami e ancora più su. A Washington l’ammistrazione di Bush padre non si oppose all’uscita di scena del «prete-rivoluzionario», anzi. Ma fu la stessa Casa Bianca, dove nel frattempo era arrivato Bill Clinton, su pressione della lobby democratica afro-americana e per tamponare l’invasione via mare dei boat people haitiani (41 mila profughi fermati in 2 anni) a decidere il ritorno del prete populista nel 1994.
Non un intervento casuale: gli Stati Uniti hanno sempre giocato un ruolo a Haiti, già occupata tra il 1915 e il ’34 dopo che le tensioni tra neri e mulatti avevano messo in pericolo la pace nelle piantagioni di proprietà Usa. E all’alba del 7 febbraio 1986 fu un aereo da trasporto dell’Air Force ad aprire la pancia per accogliere una lussuosa Mercedes: al volante, accanto alla moglie con la sigaretta in bocca, c’era Jean-Claude Duvalier detto Baby Doc, il ferocemente sorridente dittatore che nel ’71, a soli 19 anni, aveva sostituito il padre «Papa Doc» che deteneva il potere dal ’57, dopo esserselo conquistato con un golpe militare. La dittatura dei Duvalier, lussi sfrenati e squadroni della morte, ha segnato a fuoco e rum la storia
di Haiti. Con o senza di loro, il declino di un’economia coloniale fondata sullo zucchero non ha impedito alle famiglie dei proprietari terrieri e della nuova borghesia imprenditoriale di sfruttare i venti della prima globalizzazione con manodopera a costo zero. L’Air Force
americana depositò Baby Doc in Francia, dove tuttora vive in un castello. Il suo allontanamento non coincise con una rinascita haitiana. Così come quello dell’autoritario Aristide, nel 2004, non ha cambiato le regole del gioco. Dopo i tonton macoutes di Baby Doc e le chimères di Aristide sono comparse le squadracce degli attachés. La violenza aumenta in prossimità di scadenze elettorali. Nel 2006 una «partita della pace», organizzata da ong internazionali, finisce in strage quando uno squadrone della morte fa invasione di campo sotto
gli occhi della polizia: fanno sdraiare i giocatori e ne uccidono alcuni, con un colpo alla testa. Quel voto ha sancito la vittoria democratica di René Preval, l’attuale presidente. Nei tre anni  seguenti la violenza a Haiti è diminuita. Merito dei circa 7 mila soldati della forza Onu (Minustah) che dal 2004 amministrano la sicurezza (fu Aristide a sciogliere l’esercito sperando di azzerare i golpe). I peacekeeper armati hanno fatto il loro lavoro combattendo le
gang. Mentre la natura ha continuato la strage: 800 morti per uragani nel 2008, lo stesso anno che ha visto le rivolte della fame nelle strade di Port-au-Prince. Anche chi vive mangiando argilla si ribella. Se pa fot mwen, colpa della crisi alimentare mondiale ha detto il governo, pur dando vita a un piano d’emergenza. Nel 2009 l’Fmi e la Banca Mondiale hanno cancellato l’80% del debito estero di Haiti (1,2 miliardi di dollari). A novembre è cambiato il primo ministro. Arriva Jean-Max Bellerive. Avanti un altro, ordinaria amministrazione. La verità è che niente si muove veramente a Haiti, a parte la maledetta placca di Gonaives.

IL CORRIERE DELLA SERA 14 GENNAIO 2010