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libia-proteste-12LA CITTÀ ASSEDIATA. NELL’INFERNO DI MISURATA SOTTO I MISSILI DEL RAISS
Ottanta razzi e cannonate sin dall’alba contro le case: 23 uccisi Manca tutto e la gente, stremata, cerca di fuggire via mare
MIMMO CÁNDITOMISURATA
Il dramma
Le forze del regime circondano il centro sparano su ospedali e sulla popolazione.
Nella strada dei cecchini ribelli libici camminano armati per Tripoli Street , la principale strada di Misurata presidiata dai cecchini di Gheddafi, appoggiati dai mezzi pesanti ben nascosti tra le macerie delle case.
Duecentocinquanta nelle ultime due settimane, ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini, che parla di «Misurata come di una città martire». Scegliete il giorno, anche oggi se volete, ma il conto non cambierà molto. E poi, i feriti, lo strazio di chi gli stava accanto, lo stupore muto di chi guarda il cielo e aspetta di sentire il nuovo scoppio. Che, se è passato, questa volta ti è andata bene e allora torni a tirare su la testa e guardi. L’inferno ha nome Misurata, che un tempo era anche una città, con quelle stesse strade diritte e quei vicoli stretti che tutte le città di mare hanno, con quell’odore nell’aria che sa di sale e le facce che sanno di vento. Ma in questo posto disgraziato che un tempo era una città e ora è soltanto un inferno non ci sono diavoli. O, almeno, non ci sono ancora. Qui per ora ci sono solo i dannati, che l'anima intanto non ce l'hanno più, perduta in questi 40 giorni di assedio, schiacciata e sepolta sotto le cannonate che hanno sbriciolato muri e palazzi, case e giardini, e speranze e futuro. I diavoli che tirano le cannonate in questo inferno se ne stanno invece alla periferia e hanno le facce della gente di Gheddafi, la sua bandiera verde, i suoi tank, e i lanciarazzi che fanno una traiettoria di 40 chilometri e ammazzano chi gli sta sotto che muore senza nemmeno fare a tempo ad accorgersene.
L'inferno? Lo dicevo a Jeremy mentre sbarcavamo sulla banchina e gli facevo segno ai tonfi sordi delle cannonate che il vento ci portava addosso. Jeremy è il comandante di una piccola spedizione dell’Oim arrivata ieri sera a Misurata con una nave per portare aiuti ai dannati senz’anima. Sono camionate di cipolle, di patate, di pasta, di latte, di medicinali, e di tanta, tanta acqua. Più due squadre di medici e un manipolo di reporter. Jeremy diceva che sì, forse è un inferno, ma che è il mondo d'oggi che è pieno di inferni. Scrollava la testa, ma non ci piangeva su. È molto british, fatti, impegno, cose concrete. Portava queste tonnellate di aiuti, è ripartito subito riempiendo la sua nave di sfollati (la M della sua sigla significa «migranti») che vogliono scappare.
Abbiamo viaggiato una notte e un giorno, per arrivare a Misurata, qualcuno ha vomitato l'anima, qualcuno ha acceso il satellitare e ha rassicurato la famiglia, qualcuno ha raccontato storie di guerra nel silenzio degli altri; il cielo era fatto di stelle che quasi le toccavi. L'equipaggio - greci, romeni, libanesi - era molto gentile: sapeva dove viaggiavi, ti aiutava come poteva. All'inferno si torna a essere tutti uguali: uomini e basta, e non contano più le lingue, le facce, le nazioni. I reporter hanno affollato il ponte. Un tempo si faceva il giornalismo con la penna e un taccuino. Oggi - soprattutto se fai la televisione - ti accompagnano montagne di borsoni, e ci sono dentro telefoni satellitari, antenne, spinotti, cavi, telecamere, registratori, batterie, più gli elmetti e i giubbotti antiproiettile perché oggi i giornalisti li ammazzano, e non sempre perché raccontano la verità. Abbiamo dovuto portarci anche l'acqua e le nostre provviste per sopravvivere, il pane, i formaggini, qualche mutanda, un asciugamano, una lampada a pile, la carta igienica, le banane che si sbucciano facili. E qualche libro.
Si era imbarcato con noi anche un giovanotto che non è un reporter, ha la faccia triste e la voce bassa che quasi non lo senti. Si chiama Mustafa el Ghehawi, è un libico, di Misurata. Aveva un lavoro a Firenze, lo ha lasciato per venire a combattere la sua Rivoluzione libertaria. Ha vomitato anima e pancia, ma non il cuore. Se n’è stato seduto quieto, con il suo vestitino da emigrante che torna a casa e a tracolla un borsone. Dice che farà la guerra così, a mani nude, con la sua giacchetta grigia e la camicia a quadretti blu. Quando sarà finita, non è detto che lui torni a fare il migrante a Firenze. «Misurata è la mia casa», dice con la sua voce piana.
Eravamo partiti da Bengasi l’altro ieri, che il pomeriggio finiva lentamente; abbiamo attraccato, qui, nell’inferno che si chiama Misurata, che un altro pomeriggio era finito. Si sarebbe potuto viaggiare lungo la costa del golfo della Sirte, ma c'era il rischio di essere attaccati dai barchini di Gheddafi o dai suoi razzi Grad che piombano e ammazzano a 40 chilometri; il comandante ci ha detto che prendevamo il largo per metterci sotto la protezione delle navi della Nato che pattugliano il mare della Libia. Ne abbiamo incrociate un paio, una fregata che pareva americana, un incrociatore italiano.
Quando avevo chiesto a Jeremy com’erano le previsioni, aveva detto che il mare era annunciato piatto come una tavola, «smooth, very smooth». Poi, sorridendo, aveva aperto lo zip d'un taschino del suo giubbotto e aveva mostrato una scatolina di pastiglie. «Contro il mal di mare. Sono americane, ottime». Mentre ci avvicinavamo alla costa, il capitano della nave ha avuto via radio la notizia che sul porto stavano bombardando pesante. Che avevano cominciato a bombardare già dal mattino, un missile ogni 2 o 3 minuti, uno dei giorni più duri di questo assedio. Ha detto che in quelle condizioni non si andava avanti, e anzi era meglio tornare a Bengasi. È intervenuto Jeremy. Io non voglio rischiare la pelle di nessuno, ha detto, manteniamo la calma; aspettiamo. Il ran-ruràn dei cilindri del motore si è acquietato, abbiamo rallentato. Abbiamo attraccato che dietro la banchina s'affollava un migliaio di dannati che vogliono scappare dall’assedio, dalle cannonate, dal puzzo di morte, dalla paura che non ti fa dormire, e dai gatti assatanati di Gheddafi che se li vogliono sbranare. Avevano facce senz’anima, una infinità di fagotti, e ancora la paura dentro per i missili che stavano piombando a raffica in quella zona, che eppure finora era stata una delle più sicure. Relativamente sicure... Ieri sera il porto è stato chiuso. Basta partenza, fine della speranza di uscire dall’inferno.
Chi di noi li aveva, è sbarcato con l'elmetto ben calato in testa e il giubbotto stretto addosso. Gli altri, pochi, ci siamo affidati alle leggi statistiche delle guerre; non è una grande garanzia, ma comunque testa bassa, e andare. Il cannoneggiamento ha lasciato sangue e disperazione. Era cominciato assai presto, che neanche c'era ancora l'alba e già l'aria era squassata dal tonfo duro dei missili (in tutta la giornata ne hanno contati 80) che cadevano con un sibilo drammatico sulle case, mute, addormentate. I primi morti, il razzo li ha fatti alle 6,30. Il piccolo edificio si è come sbriciolato sotto l'impatto gigantesco del Grad che lo aveva centrato. I morti sono stati 5, e ancora nemmeno tutta la città era sveglia. Nell’ospedale dove li hanno portati - una grande clinica privata che si chiama «Saggezza», l’ospedale cittadino è stato chiuso dopo che i missili lo hanno centrato più e più volte - i chirurghi erano già lì che operavano. «Qui si opera giorno e notte - ha detto il dottor Paolo Grosso, che dirige un team di Emergency sbarcato a Misurata via Valletta - da Bengasi non era possibile, neanche per mare». Danno un aiuto ai dottori libici. «Son venuti medici da ogni parte del Paese, ci alterniamo, facciamo il nostro dovere. Nulla di più», dice Mustafa, 28 anni, capo del gruppo di lavoro.
Fuori dall’ospedale impazzito di gente, di barelle, di morti che vengono portati via, di feriti che urlano il loro dolore, d'una guerra che ha la ferocia che solo le guerre civili hanno, i missili continuano a cadere. Alle 18,23 un tonfo più sordo ha scosso l'aria. Gli infermieri che stazionavano accanto alle grandi tende di cui è pieno il cortile hanno battuto le mani: «Nato, la Nato».
LA STAMPA 15 APRILE 2011